Anonimato cautelare, altra prova della datazione dei Sinottici
Per alcuni episodi riferiti dai Vangeli Sinottici, gli evangelisti evitano di fare il nome dei protagonisti, nel chiaro scopo di evitare di metterli in pericolo davanti alle autorità. Nomi che invece farà Giovanni. Segno che i Sinottici sono stati scritti quando i protagonisti erano ancora vivi.
L’abitudine ci porta a farci poco caso, ma i Vangeli sono gremiti di dettagli di straordinaria importanza, anche dal punto di vista storico e apologetico. Dettagli rivelativi del sostrato di testimonianza oculare di questi scritti e della loro datazione a ridosso degli eventi.
Una concretizzazione particolarmente interessante la troviamo nella cosiddetta Protective Anonimity (anonimato cautelare), espressione coniata da Richard Bauckham (vedi qui), nella scia dello studio del teologo protestante Gerd Theißen, Lokalkolorit und Zeitgeschichte in den Evangelien. Di cosa si tratta? Nei Sinottici ci sono alcuni personaggi dei quali vengono omessi i nomi; nomi che però si trovano specificati nel quarto Vangelo.
Nel racconto dell’arresto di Gesù secondo il Vangelo di Marco, troviamo scritto che «uno dei presenti, estratta la spada, colpì il servo del sommo sacerdote e gli recise l’orecchio» (Mc 14, 47); anche i brani paralleli di Matteo (26, 51) e Luca (22, 50) tacciono dell’identità sia dell’offensore che dell’offeso. Al contrario, Giovanni offre la carta d’identità di entrambi: «Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la trasse fuori e colpì il servo del sommo sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro. Quel servo si chiamava Malco» (Gv 18, 10).
Sempre nel contesto dell’arresto, compare un altro personaggio anonimo: il «giovanetto... rivestito soltanto di un lenzuolo», che viene agguantato e che, per sfuggire alle guardie, lascia loro in mano il suo abito, fuggendo via nudo (cf. Mc 14, 51-52). Questo episodio è una particolarità di Marco, del tutto assente negli altri due Sinottici come anche nel quarto Vangelo.
Un altro silenzio piuttosto singolare riguarda l’identità della donna che a Betània versò l’olio profumato sul capo di Gesù (cf. Mt 26,6-13; Mc 14, 3-9; secondo Giovanni, sui suoi piedi). La singolarità sta nel fatto che i primi due evangelisti sottolineano che «dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei» (Mt 26, 13). Non c’è altro evento evangelico del quale si dica che dovrà essere sempre predicato in memoria della persona che l’ha compiuto. Eppure questa persona resta anonima. Occorre “attendere” il quarto Vangelo (Gv 12, 1-8) per scoprire che si tratta di Maria di Betània, la sorella di Marta e Lazzaro.
Ritorniamo ai primi due episodi. Theißen ha fatto notare che entrambi si verificano nel contesto di uno scontro con le guardie e che gli evangelisti si guardano bene anche solo dal dire che i due personaggi anonimi appartenevano al gruppo dei Dodici. L’anonimo che aveva tagliato l’orecchio al servo del Sommo sacerdote non lo aveva certamente ferito accidentalmente; il colpo inferto aveva invece l’intenzione precisa di ferire e persino uccidere. Il responsabile poteva dunque essere arrestato e condannato alla morte. Il giovanetto che era fuggito via nudo, poi, era certamente reo di quella che oggi potremmo chiamare resistenza a pubblico ufficiale.
«Entrambe queste persone erano di conseguenza in pericolo. Finché il servo del sommo sacerdote era vivo [...] sarebbe stato inopportuno menzionarne i nomi; non sarebbe stato neppure opportuno identificarli come membri della prima comunità cristiana. Il loro anonimato era funzionale alla loro protezione e l’oscuramento della loro positiva collaborazione con Gesù è una strategia di cautela. Sia il narratore che gli uditori sapevano molto di queste due persone» (Theißen, cit. in Jesus and the Eyewitnesses, 185-6).
Non c’era una vera necessità né era affatto opportuno rivelare quei nomi: il contesto degli uditori “fedeli” ne conosceva l’identità, evidentemente perché i due protagonisti erano ancora presenti tra di loro; sul versante dei nemici, invece, sarebbe stato estremamente rischioso rivelarne l’identità, appunto perché si trattava di due reati denunciabili e perseguibili in tutto l’Impero Romano. Occorreva guardarsi anche dall’ambiente giudaico, in particolare durante il periodo in cui i membri della famiglia di Anna detenevano il sommo sacerdozio, e cioè fino al 63 circa. Per questo probabilmente Marco evita di nominare persino il nome del sommo sacerdote nei racconti della Passione.
Che dire di Maria di Betània? Il gesto di questa donna significa ben più che un atto di squisita e generosa ospitalità. «Al tempo in cui questa tradizione prese forma nella Chiesa primitiva di Gerusalemme, questa donna avrebbe potuto essere in pericolo se fosse stata identificata come complice nella pretesa politicamente sovversiva di Gesù di una regalità messianica. Il pericolo di lei era forse persino maggiore di quello dell’uomo che aveva aggredito il servo del sommo sacerdote, perché era stata lei ad aver unto Gesù come Messia» (Theißen, cit. in Jesus and the Eyewitnesses, 190).
Sono diversi gli autori che sottolineano che questa unzione aveva un significato messianico, sebbene, nelle intenzioni di Gesù, non secondo le aspettative terrene di Israele, ma nella logica del buon Pastore che dà la sua vita per le pecore. Ma ai Giudei di queste intenzioni interessava poco. Il problema era la rivendicazione dell’identità messianica.
La donna aveva compiuto un gesto altamente provocatorio, riconoscendo davanti a tutti Gesù come il Re-Messia. Oltretutto alle porte di Gerusalemme. È importante notare che la scena dell’unzione, nel Vangelo di Marco, segue immediatamente il piano dei Giudei di arrestare ed uccidere Gesù (14, 1-2) e precede il tradimento di Giuda (14, 10-11). L’inserzione non è casuale; secondo Bauckham infatti, «possiamo di certo capire che Giuda riferisce l’incidente dell’unzione al sommo sacerdote, per il quale esso deve rappresentare la prova significativa che Gesù e i suoi discepoli stavano pianificando un’imminente moto messianico. Forse potremmo anche supporre che fu questo incidente – con l’indispensabile conferma di Gesù che egli avrebbe adempiuto il suo ruolo messianico solamente alle sue condizioni di una vocazione a morire – che portò Giuda a tradire» (Jesus and the Eyewitnesses, 192-3). Ce n’è abbastanza per mettere in pericolo la vita di Maria di Betània, negli anni ancora a ridosso dei fatti.
Un silenzio ancora più eclatante riguarda la risurrezione di Lazzaro. Nessuno dei Sinottici riporta questo fatto così fondamentale e decisivo. Per quale ragione? Ancora una volta per proteggere la persona coinvolta. Solo che, in questo caso, sarebbe stato impossibile tutelare la persona raccontandone il fatto. La risurrezione di Lazzaro, infatti, avvenne alle porte di Gerusalemme e, riferisce Giovanni, «molti Giudei erano venuti da Marta e Maria per consolarle per il loro fratello» (11, 19). Tutti sapevano: non era dunque possibile utilizzare l’anonimato cautelare, come per Pietro, Marco (con molte probabilità, il giovinetto sfuggito alle guardie) e Maria. Da qui la decisione di non parlarne affatto. Giovanni invece non aveva più bisogno di questa tutela, forse perché, come afferma la tradizione, Lazzaro, Maria e Marta erano già partiti, insieme a Massimino e altri discepoli, per approdare a Saintes-Maries-de-la-Mer, a ovest di Marsiglia.
Questi dettagli di anonimato confermano la valenza di testimonianze oculari dei Vangeli, in un contesto molto vicino temporalmente all’epoca di accadimento degli eventi narrati. Talmente vicino, da dover custodire l’identità di alcuni personaggi, evidentemente ancora vivi e “a portata di mano” dei Giudei e delle autorità romane.