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SCONFESSATO Welby

Anche gli anglicani hanno le loro grane Lgbt: via il primate

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I 12 primati della Global South Fellowship of Anglican Churches hanno clamorosamente bocciato l'arcivescovo di Canterbury Justin Welby, colpevole di aver assecondato il sinodo generale della chiesa d'Inghilterra nel senso di benedire le unioni tra persone dello stesso sesso.

Ecclesia 22_02_2023

La GSFA non è più in grado di riconoscere l'attuale arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, come primus inter pares di tutti i primati anglicani. Poche parole di un comunicato con cui dodici vescovi anglicani provenienti da diversi continenti e appartenenti alla The Global South Fellowship of Anglican Churches hanno clamorosamente bocciato l'arcivescovo di Canterbury colpevole di aver assecondato il sinodo generale della chiesa d'Inghilterra nella sua decisione votata a maggioranza di benedire le unioni tra persone dello stesso sesso.

Non è stato fortunato il recente viaggio che Welby ha fatto a Juba al fianco di Papa Francesco: infatti il sud-sudanese Justin Badi Arama compare nella lista dei primati anglicani che lo hanno sfiduciato in una dichiarazione durissima. Nel documento, la chiesa d'Inghilterra è stata accusata di essersi «allontanata dalla fede storica tramandata dagli Apostoli» e si è per questo «squalificata da sola dalla guida della Comunione» anglicana. Occorre ricordare, infatti, che la chiesa d’Inghilterra gode dello status di chiesa madre nella comunità anglicana e che l’arcivescovo di Canterbury veniva considerato al suo interno come un leader spirituale.

Potrebbe non essere più così però dopo la sconfessione della Global South Fellowship of Anglican Churches che, pur presentata dai media con l'etichetta di "conservatrice", in realtà è la più rappresentativa dal momento che rivendica di comprendere le province con la maggioranza di fedeli anglicani nel mondo. Non è escluso, inoltre, che nelle prossime ore altri primati anglicani possano aggiungersi ai dodici che hanno già firmato. Il rischio, come sottolinea The Wall Street Journal, è il collasso stesso della Anglican Communion. Uno scenario che, però, non sembra dispiacere troppo ai ministri arcobaleno della chiesa d'Inghilterra come Andrew Foreshew-Cain, cappellano all'università di Oxford, per il quale bisognerebbe tagliare di legami con le chiese straniere e preoccuparsi piuttosto della «piena affermazione e accoglienza delle persone Lgbt». 

Welby non ha fatto alcunché per impedire la spaccatura all'interno della comunità anglicana globale, al contrario si può dire che l'ha avallata salutando con entusiasmo il voto di inizio febbraio con cui il sinodo generale d'Inghilterra ha approvato con voti 250 favorevoli e 180 contrari il via libera alla benedizione delle coppie gay. Una decisione arrivata dopo otto ore di discussione e nella consapevolezza di provocare la protesta di molte chiese anglicane africane, sudamericane ed asiatiche. E infatti, a stretto giro, era arrivata la bocciatura del primate anglicano dell'Uganda, Stephen Kaziimba per il quale «Dio non può benedire ciò che chiama peccato» e che aveva preannunciato quanto poi avvenuto in queste ore, avvertendo l'arcivescovo di Canterbury che «non possiamo camminare insieme quando non siamo uniti». Non a caso il suo nome compare tra i dodici firmatari della dichiarazione della GSFA che accusa quella d'Inghilterra di essere una provincia revisionista e i suoi vescovi di aver intrapreso «la via del falso insegnamento». 

Welby, di cui nel comunicato viene detto senza mezzi termini che «non è più il leader della Comunione e non è più il presidente dell'Assemblea dei primati in virtù della sua posizione», all'indomani del voto del sinodo inglese sulla mozione intitolata "Living in Love & Faith", aveva detto in una nota congiunta con Stephen Cottrell, arcivescovo di York, che per la chiesa d'Inghilterra si apriva «un nuovo inizio» nel quale «accoglierà pubblicamente, senza riserve e con gioia le coppie dello stesso sesso in chiesa». Un nuovo inizio che, però, potrebbe corrispondere alla fine della sua leadership spirituale nella comunità anglicana e, nel peggiore dei casi, alla fine stessa della Anglican Communion per come l'abbiamo conosciuta fino ad oggi.