Amato-Povia: uno show contro il pensiero unico
Invertiamo la rotta. Contro la dittatura del pensiero unico è l'originale spettacolo-informativo della "strana coppia" Giuseppe Povia-Gianfranco Amato. Il primo canta, il secondo mette in guardia sui rischi del pensiero moderno in fatto di divorzio, aborto, fecondazione artificiale, eutanasia, gender, adozioni e nozze gay e dell’utero in affitto. Un successo. Che i media snobbano.
“Hannah Arendt diceva che affinché si affermi una forma di totalitarismo bastano tre ingredienti: un potere fortissimo, una macchina di propaganda micidiale e un popolo addormentato. Oggi noi rischiamo di averli tutti e tre. E l’ultimo elemento, il popolo addormentato, è quello più pericoloso”. L’avvocato e presidente dei Giuristi per la Vita, Gianfranco Amato, ricorre alla lezione della grande filosofa d’origine ebraica, autrice del saggio Le origini del totalitarismo, per spiegare le ragioni del suo tour informativo Invertiamo la rotta. Contro la dittatura del pensiero unico, che da alcuni mesi - accompagnato dalle canzoni a tema di Giuseppe Povia - riempie le sale e i teatri di tutta Italia. Venerdì 5 il tour farà tappa a Stezzano (BG) e sabato 6 a Milano al Rosetum (20:45, offerta e ingresso liberi, fino ad esaurimento posti), ma in calendario ci sono diversi altri incontri, a conferma dell’interesse suscitato dall’iniziativa culturale, capace di coinvolgere trasversalmente giovani, bambini e anziani.
Nonostante si tratti di un format originale, che unisce l’idea della conferenza alla musica, sul tour che vede come mattatori Amato e Povia domina una cappa di silenzio da parte dei media. “Questo format è una novità assoluta, è vero che esiste già il cosiddetto infotainment (il genere che abbina informazione e intrattenimento), ma non è esattamente quello che facciamo noi. Per un incontro che la sera fa uscire di casa centinaia di persone di ogni età e strato sociale, incollandole alla sedia per due-tre ore, sarebbe ragionevole pensare che qualcuno studiasse il fenomeno, anche solo dal punto di vista sociologico. Invece, nessuno ne parla”. Anche questa censura silenziosa è figlia del politicamente corretto, che attacca o in certi casi oscura ogni tentativo di fare luce sui danni per il bene comune di divorzio, aborto, fecondazione artificiale, eutanasia, gender, adozioni e nozze gay, fino al punto estremo dell’utero in affitto: è il pensiero unico che il potere politico, mediatico ed economico sta diffondendo da almeno mezzo secolo, dando l’illusione che la libertà e i diritti equivalgano ai desideri. Che poi sono sempre i desideri del più forte, e in questo senso vanno lette pure le frequenti pretese di cancellare il diritto all’obiezione di coscienza.
Ecco perché buona parte dell’incontro è dedicata ai bambini privati del diritto di nascere o di avere una mamma e un papà, agli ultimi, a coloro che non hanno voce, alle future generazioni, il cui grado di libertà dipenderà dalle scelte che oggi - pur con i condizionamenti che esistono già - saremo in grado di fare, dai no che saremo in grado di dire per difendere la vera libertà, dalla capacità di informarci e di informare, resistendo all’imposizione di un’ideologia che colpisce la famiglia e la vita, creando individui sempre più isolati e perciò sempre più in balìa delle volontà di chi detiene il potere. Basterebbe osservare che le leggi sui “nuovi diritti” di cui sopra vengono ormai approvate pressoché uniformemente in ogni Paese occidentale, uno dopo l’altro, in una sorta di ineluttabile effetto domino, facilitato dalla grancassa mediatica che genera consenso, emarginando le voci contrarie. Non a caso, Amato inquadra la diffusione del pensiero unico all’interno “della grande omologazione culturale di cui parlava Pasolini. È l’azzeramento di ogni capacità critica da una parte e, dall’altra, l’imposizione totalitaria di ciò che il potere pensa. Viviamo in una specie di anestesia collettiva, dove la maggioranza sembra davvero non accorgersi di quello che sta succedendo”.
Basterebbe nel suo piccolo vedere anche la parabola personale di Povia, ostracizzato di fatto dal 2009, da quando cioè - all’apice della carriera - cantò “Luca era gay”, che varie associazioni Lgbt cercarono di bloccare. Oggi, ad appena otto anni di distanza, è ormai impensabile ascoltare una canzone del genere in un Festival sempre più politicizzato. Anche per i suoi brani controcorrente, Amato ha parole di stima per Povia, che definisce come “colui che ha ripreso la vera tradizione dei cantautori, quelli che cantavano per contrastare il potere, a differenza delle molte ugole prezzolate che ci ritroviamo oggi”.
Oltre alle canzoni di Povia e ai suoi duetti con Amato, c’è un momento dell’incontro che il pubblico vive con particolare coinvolgimento. È quando il cofondatore del Popolo della Famiglia ricorda l’episodio di una signora romana di 97 anni, che a una sua conferenza sui pericoli del ddl sull’omofobia (un ddl che la Cirinnà e altri parlamentari vogliono rilanciare nella sua versione iniziale, che introdurrebbe una vaghissima nozione di “omofobia”, prevedendo fino a sei anni di carcere) gli disse di essere lì “per fare quello che non aveva fatto 80 anni prima”. L’anziana signora gli spiegò pure il perché: “Vede, quando in Italia approvarono le leggi razziali, gli italiani perlopiù non ne sapevano nulla, mentre io e quelli un po’ più informati sostenevamo che agli ebrei non sarebbe mai successo niente, che era solo una questione politica dettata dall’accordo con la Germania. Sa quando a Roma ci siamo accorti che la cultura dietro a quelle leggi non era uno scherzo? Il 16 ottobre del ’43, quando i nazisti deportarono dal ghetto romano oltre mille ebrei. La mia migliore amica era ebrea, e non è più tornata. Quello che allora non ho fatto per lei, non voglio che ricapiti più”.
Amato, nel ribadire perché è necessario invertire la rotta, chiosa così: “Minimizzare e non conoscere equivale a fare il gioco della dittatura. Noi siamo qui per evitare che le persone fra 10-20-30 anni si sentano come si sente oggi quella signora”. E non riescano a rispondere ai loro figli, che magari un giorno potrebbero chiedere: “Ma tu dov’eri mentre succedeva tutto questo?”.