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LA STECCA

Allevi perde il ritmo quando parla di Beethoven

"Beethoven non ha ritmo. Meglio Jovanotti". E la boutade del riccissimo Allevi ci può servire da sponda per comprendere quale era il posto del ritmo nell’universo beethoveniano. Uno sforzo titanico per concentrare melodia, armonia, agogiche e ritmo.

Cultura 18_08_2013
Allevi

«Si può cogliere il ritmo nel battito del polso… nel volo degli uccelli, etc.» È Anton Schindler amico e primo biografo di Beethoven a vergare queste parole su un quaderno, uno dei tanti che servivano per comunicare con il maestro negli ultimi anni della sua vita a motivo della sordità sempre più grave che lo affliggeva. L’interlocutore scriveva e Beethoven il più delle volte rispondeva a voce. Attraverso questi quaderni di conversazione – in origine più di 400 - possiamo a specchio ricostruire il mondo del genio di Bonn, le sue idee, il suo pensiero, i suoi stati d’animo.


Schindler qualche riga prima, rifacendosi alle tesi degli antichi greci, parla del ritmo in musica inteso in senso matematico e metronomico. Beethoven pare non essere d’accordo e gli illustra la sua idea di ritmo: un pulsare naturale insito negli organismi viventi. Allora il suo interlocutore esemplifica alludendo al battito del polso, al volo degli uccelli. Qui interviene nuovamente Beethoven che paragona il ritmo al volo di un’aquila. Lo possiamo dedurre con buona probabilità perché il quaderno riporta una domanda di Schindler il quale forse non aveva capito bene e chiede: «L’aquila?». Ecco cosa era per Beethoven il ritmo: un pulsare regale come il battito d’ali di un’aquila.


Ma per il pianista Giovanni Allevi questo non basta. Rilasciando un’intervista al Giffoni Film Festival ha infatti affermato: «Un giorno ho capito che dovevo uscire dal polverone e cambiare approccio con la musica, anche se si trattava di quella classica. Stavo ascoltando a Milano la Nona Sinfonia di Beethoven. Accanto a me un bimbo annoiato che chiedeva insistentemente al padre quando finisse. Credo che in Beethoven manchi il ritmo. Con Jovanotti, con il quale ho lavorato, lui ha capito cos'è il ritmo, elemento che manca nella tradizione classica». Qui non serve di certo prendere le difese di Beethoven nei confronti di Allevi: sarebbe come voler dimostrare che la Torre di Pisa è pendente. L’evidenza non ha bisogno di prove e il simpatico Jovanotti credo che ne converrà.


Però la boutade del riccissimo Allevi ci può servire da sponda per comprendere quale era il posto del ritmo nell’universo beethoveniano. Andando molto per semplificazioni potremmo dire che il compositore tedesco costruiva in genere le sue opere su un’idea musicale fondante e su un’altra idea ma di carattere opposto, secondo un principio filosofico che aveva trovato negli scritti di Kant. In quell’idea e nella sua antitesi doveva esserci già tutto quello che sarebbe servito per il successivo dispiegarsi del pezzo. Ecco allora lo sforzo titanico per concentrare melodia, armonia, agogiche e ritmo, cioè pathos, in una figura musicale, in un embrione di suoni che poi secondo severe ma originali regole formali si sarebbe sviluppato nelle battute successive. Il ritmo non doveva essere un accessorio da aggiungere in modo posticcio, ma anch’esso entrava nella struttura cromosomica dell’idea: «I ritmi prolungati delle vostre opere non sono dunque calcolati – scrive ancora Schindler su un quaderno rivolgendosi al maestro – ma [sono presenti] nella natura della melodia e sovente dell’armonia».


Tipico esempio è l’attacco della V sinfonia: una pausa, poi tre brevi sol e un mi bemolle a scendere tenuto a lungo. Il famoso destino che bussa alla porta, tanto per intenderci. Ecco quella figurazione è ritmo puro e passano in secondo piano melodia (in realtà inesistente) e armonia. E su questa scansione ritmica che è un vero Big Bang compositivo germinerà un intero movimento il quale vivrà della ripetizione, però mai uguale a se stessa, di questo primordiale pulsare di quattro note. Beethoven in questo attacco ha volutamente cercato una cellula tematica costruita su un ritmo semplice – a tutti poteva venire in mente quella figurazione ma nessuno lo fece – ben conscio che tale cruda e quasi rozza semplicità sarebbe immediatamente arrivata alle orecchie, teste e cuori degli ascoltatori. Forse non di tutti gli ascoltatori a leggere il temerario giudizio di Allevi sul maestro tedesco. Ma Ludwig non se ne sarebbe preoccupato e, come ebbe a scrivere nel suo testamento di Heiligenstadt, forse avrebbe replicato così: «Pazienza. Mi dicono che questa è la virtù che adesso debbo scegliermi come guida».