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BELLE LETTERE

Alla scoperta di un altro Dickens

Nel bicentenario della sua nascita, raccontiamo un volto poco noto dello scrittore inglese, che per amore vero dei suoi figli si fece... evangelista.

Attualità 07_02_2012
Charles Dickens. "La storia di Gesù" (trad. it., a cura di Marco Respinti, Gribaudi, Milano 1997)

 

Gilbert Keith Chesterton (1874-1936), «il medioevalista che rifiutava quel tipico medioevalismo estetizzante che è una forma di escapismo e che preferisce l’ombra alla sostanza (dei secoli di mezzo esso conserva tutto tranne l’altare, e indugia su un’epoca passata in modo sentimentale e non dinamico), giudicava Dickens come un continuatore inconscio delle tradizioni della gaia Inghilterra [merry England] e del più antico umorismo cristiano inglese». Così afferma il critico letterario Peter Rae Hunt (The Background of G.K. Chesterton’s Charles Dickens, in The Chesterton Review, vol. XI, n. 4, novembre 1985, «The Charles Dickens Special Issue»).

Di Charles John Huffam Dickens - venuto al mondo a Portsmouth, in Inghilterra, il 7 febbraio 1812 e morto a Gadsh Hill Place (o Gadshill Place o ancora Gad's Hill Place), sempre in Inghilterra, il 9 giugno 1870 - ricorre oggi il bicentenario esatto della nascita. Il mondo lo ricorda per libri che sin dai banchi di scuola hanno letto più o meno tutti (e gli altri fingono di averlo fatto) quali Le avventure di Oliver Twist, David Copperfield, Tempi difficili, Grandi speranze e Il nostro amico comune (già l'umoristico Il Circolo Pickwick appartiene a un club di lettori più esclusivo): cioè per i suoi "romanzi sociali" dove, con la bieca "rivoluzione industriale" che fa da sfondo a una Londra vittoriana implacabile e dura, solo l'utopismo e i buoni sentimenti riescono, quando riescono, a consolare l'uomo per la sua cattiva sorte. Altrimenti lo si rammenta per Canto di Natale, arcifamoso, ma più per le sue mille e una riduzioni televisive o cinematografiche che per l'originale cartaceo. De gustibus. Epperò, come suggerisce Chesterton, Dickens non finisce qui.

Nel 1906, Chesterton gli dedicò un intero volume, laconicamente intitolato Charles Dickens, che, secondo il citato Hunt, non è «semplicemente un’opera di critica  letteraria». È «un'opera di critica letteraria chestertoniana, e ciò significa intrisa di una fede viva e militante nel fatto che la critica letteraria priva della dimensione religiosa e morale della tradizione europea e inglese è gretta, e davvero costituisce solo un incoraggiamento all’arte per amore dell’arte, cosa che Chesterton aborriva. Egli voleva contribuire a recuperare Dickens sia dal momentaneo oblio che gli avrebbero imposto gli iperaffinati, sia dall’abbraccio dei modernisti a cui dello scrittore piacevano solo quelle fettine che sembravano adatte al loro gusto». Chesterton scrisse inoltre diverse introduzioni per un'edizione paperback delle opere di Dickens, poi raccolte nel 1911 in volume, Una gioia antica e nuova. Scritti su Charles Dickens e la letteratura (trad. it., a cura di Edoardo Rialtri, Marietti, Genova-Milano 2011)

DICKENS "EVANGELISTA"

Di questo Dickens meno noto vi è un piccolo, umile, ma prezioso esempio. S'intitola The Life of Our Lord, tradotto in italiano con il titolo La storia di Gesù (Gribaudi, Milano 1997). «Questo libro - scrive Mary "Mamie" Angela Dickens (1838-1896), la primogenita dello scrittore, firmando, nell'aprile 1934, la prefazione alla prima edizione del testo -, l’ultima delle opere pubblicate di Charles Dickens, possiede un interesse e uno scopo specifici, che lo diversificano totalmente da qualsiasi altra cosa egli abbia scritto. A parte l’argomento religioso, il manoscritto è legato in modo davvero intimo al romanziere e non costituisce tanto una spiegazione del suo pensiero quanto un tributo al suo cuore e alla sua umanità e, certo, anche alla sua profonda devozione verso Nostro Signore. Fu scritto nel 1849, ventuno anni prima della morte, espressamente per i suoi figli».

Il manoscritto originale, prosegue la figlia, «è interamente vergato a mano e non costituisce affatto una bella copia quanto piuttosto una stesura di getto. [...] Charles Dickens raccontava spesso ai suoi figli la Storia del Vangelo e nelle lettere che indirizzava loro faceva uso di esempi religiosi. Questa vita di Nostro Signore fu scritta senza pensare alla pubblicazione e per lasciare alla famiglia una testimonianza duratura dei pensieri del padre». Dickens «aveva precisato di aver scritto La storia di Gesù in una forma che riteneva adatta soprattutto ai propri figli e non per la pubblicazione».
Dopo la morte dello scrittore, il testo restò proprietà della cognata, Georgina Hogarth (1827-1917) e quindi passò a Sir Henry Fielding Dickens (1839-1833), l'ottavo dei dieci figli che Dickens ebbe dalla moglie Catherine "Kate" Thomson Dickens (nata Hogarth, 1815-1879).
Il figlio, precisa "Mamie" Dickens, «fu contrario a pubblicare l’opera da vivo, ma non vide alcun motivo per impedire che ciò avvenisse una volta che egli fosse scomparso. Il testamento di Sir Henry stabilì così che se la maggioranza della sua famiglia fosse stata favorevole alla pubblicazione, La vita di Gesù avrebbe dovuto essere divulgato: fu dunque pubblicato per la prima volta, a puntate, nel marzo 1934».

Oltre certo sentimentalismo religioso e certo utopismo tipicamente ottocentesco (che ricordano alcuni ambienti del socialismo romantico non  marxianamente "scientifico") pur presenti anche in pagine famose dello scrittore - o nell’interpretazione corrente che di esse si dà -, in questo libretto Dickens affronta direttamente la «questione Gesù Cristo».
Lo chiama sempre «Our Saviour», in traduzione «il Salvatore Nostro»: non "il primo rivoluzionario della storia", cioè; non "l'amico di tutti" o il "buonista per eccellenza". No: il Cristo dickensiano di quelle pagine non è un Gesù umano troppo umano, seppur umano certamente Egli è. Parimenti, non si tratta di uno spirito disincarnato che - come ha sapientemente ironizzato in pagine memorabili Clive Staples Lewis (1898-1963) - aleggia in qualche angolo dei nostri soffitti. È il Figlio di Dio, davvero il Figlio di Dio (nome proprio - come ripete bene Papa Benedetto XVI nei due tomi di cui si compone il suo Gesù di Nazaret - non "un dio" qualsiasi...). Incarnato, morto e risorto per la redenzione del mondo, punto e basta.

La storia di Gesù è insomma una parafrasi, a tratti letterale, dei quattro Vangeli e di alcune pagine degli Atti degli Apostoli: una sintesi della Buona Novella, che Dickens pensò, volle e realizzò appunto per i suoi piccoli: coloro che incarnavano fisicamente e visivamente il suo futuro, il suo domani; coloro che erano - come, secondo Platone, son tutti i figli di tutti - il suo "desiderio d’immortalità". Quel testo lo scrittore inglese lo adoperava come un canovaccio per raccontare loro di Gesù, magari dopo le preghiere della sera di cui egli stesso ci parla nel testo. Sarebbe bellissimo se così fosse stato e nulla ci vieta di ipotizzarlo. È come se davanti a ciò che sul serio conta, davanti ai propri figli - di fronte ai quali un uomo si gioca tutto e per i quali gioca tutto -, non si potessero tratteggiare caricature o scarabocchiare meri vezzi estetici. Aveva proprio ragione Chesterton. Ci vuole la massima serietà; e solo chi altrove ha dimostrato di possedere il dono dell’ironia e dell’umorismo costruttivi, direbbe lo stesso Chesterton, potrà dimostrarsi all’occorrenza - per esempio ne La storia di Gesù - davvero serio.

Di Dickens tutti ricordiamo almeno il citato, magico Canto di Natale, una straordinaria novella che, se letta con occhi attenti, non è affatto solo un apologo un po’ sdolcinato per "tener buoni" i bimbi schiamazzanti. Nel Canto di Natale ci sono il peccato, il giudizio e l'inferno;c’è il tempus fugit e c’è una versione particolare della danse macabre medioevale; ci sono il pentimento, il perdono e il mutamento radicale di vita; ma soprattutto quella che Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) chiama «eucatastrofe».

LA «CONSOLAZIONE DEL LIETO FINE»

Tolkien si spiega bene nell’Epilogo del notissimo saggio Sulle fiabe (1939). L'«eucatastrofe» è la «Consolazione del Lieto Fine», «l’improvviso capovolgimento gioioso» di una storia: «tutte le fiabe completamente tali dovrebbero averlo». Così, per Tolkien, «il racconto eucatastrofico è la vera forma di fiaba e ne costituisce la suprema funzione», senza che peraltro questo smentisca «l’esistenza della discatastrofe, del dolore e del fallimento: la loro possibilità è anzi necessaria alla gioia della salvazione; smentisce però, nonostante le molte apparenza del contrario, l’universale sconfitta finale, e pertanto è evangelium, in quanto permette una futura visione della Gioia, Gioia al di là delle mura del mondo, acuta come un dolore».

E infatti è «la nascita del Cristo [...] l’eucatastrofe della storia dell’Uomo» e «la Resurrezione» è  «l’eucatastrofe della storia dell’Incarnazione. Questa vicenda si inizia e si conclude in gioia, e mostra in maniera inequivocabile la "intima consistenza della realtà". Non è mai stato narrato un racconto che gli uomini possano trovare più vero di questo, e nessun racconto che tanti scettici abbiano accettato come vero per i suoi propri meriti. Ché l’Arte di esso ha il tono, supremamente convincente, dell’Arte Primaria, vale a dire della Creazione. E rifiutarla porta o alla tristezza o all’iracondia».
Consapevole o no, in questi profondi pensieri tolkieniani c'è dentro tutto, ma proprio tutto il Dickens de La storia di Gesù.

I bambini che leggono (o che vedono...) Canto di Natale sembrano capaci di sopportare benissimo le tinte forti di una vicenda non censurata e di coglierne adeguatamente il significato: la pedagogia decisa, non "corretta" né annacquata fino a scipidire, è del resto la stessa che la Santa Vergine usò con i fanciulli di Fatima nel 1917, quando, senza mezzi termini o escamotage di sorta, mostrò l’orrore dell’inferno in cui essi sarebbero andati qualora non fossero stati totalmente di Cristo.

Tutto insomma torna sempre a Gesù, anche in Dickens. Ed è un Dickens caldo, vero, accattivante quello che racconta di Gesù. È stato detto che La storia di Gesù sarebbe privo di qualsiasi valore letterario; ma pure esso non ne ha alcuna pretesa. E poi che importa? Nel bicenteneraio della nascita di questo grande scrittore di caratura mondiale, di cui però il mondo non ricorda mai quest'altro volto tanto preziosamente particolare, a noi piace sottolinearne il tratto tenero di padre ed educatore attento al punto d’insegnare alle creature che più aveva care la Storia più Bella, il compendio e il compimento di ogni sapienza e di ogni verità, la Grande Fiaba Vera del Figlio di Dio, bambino e poi adulto come erano e come sarebbero diventati anche i piccoli rampolli di casa Dickens.