Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
PERSECUZIONE

Akash Bashir, storia di un martire pakistano

Akash Bashir potrebbe diventare il primo santo martire pakistano. Diciottenne, membro del servizio d'ordine della chiesa di Saint John, a Lahore, durante un attentato nel 2015 abbracciò l'attentatore suicida, sacrificandosi per salvare i fedeli. Ora è Servo di Dio, primo passo sulla strada della canonizzazione. Il suo esempio incoraggia i cristiani perseguitati.

Libertà religiosa 11_02_2022
Tributo ad Akash Bashir

Il 15 marzo del 2015, una domenica, in Pakistan due attentati suicidi hanno colpito due chiese cristiane, la Saint John Catholic Church e la Christ Church, a Youhanabad, un sobborgo di Lahore, nel Punjab, dove vive la più grande comunità di cristiani del Paese, oltre 100mila persone. L’intenzione di arrecare il massimo danno era evidente. In quel momento infatti le chiese, molto vicine una all’altra, e i loro dintorni erano gremiti di fedeli convenuti per partecipare alle celebrazioni domenicali.

Secondo alcune testimonianze, gli attentatori, che facevano parte del gruppo jihadista Tehreek-e-Taliban Pakistan Jamaatul Ahrar, hanno cercato di entrare prima dall’ingresso principale dei due edifici e poi da uno secondario. Fermati dal personale di sicurezza insospettitosi, si sono fatti esplodere all’esterno. I morti sono stati 17 e 70 i feriti, ma sarebbero stati molti di più, di sicuro centinaia, se gli attentatori fossero riusciti a entrare nelle chiese. Uno degli addetti alla sicurezza era un ragazzo cattolico di 18 anni, Akash Bashir, che prestava servizio volontario. Era di servizio a un ingresso della Saint John Church. Quando si è accorto dell’uomo che voleva entrare in chiesa con una cintura esplosiva, lo ha bloccato al cancello di ingresso abbracciandolo. “Morirò, ma non lascerò che tu entri” sono state le sue ultime parole prima che l’attentatore si facesse esplodere uccidendolo insieme ad alcuni fedeli che si trovavano a poca distanza.

Akash Bashir era nato il 22 giugno 1994 a Risalpur, nella provincia pakistana di Nowshera Khyber Pakhtun Khwa. Abitava insieme ai genitori e ai fratelli in un piccolo appartamento. Frequentava il Don Bosco Technical Institute di Lahore e partecipava alle attività giovanili della parrocchia di Saint John. Nel primo anniversario della sua morte l’arcidiocesi di Lahore aveva avviato la procedura per chiederne la canonizzazione. Il primo passo è ottenere il titolo di Servo di Dio e il 31 gennaio di quest’anno, festa di San Giovanni Bosco, monsignor Sebastian Shaw, arcivescovo di Lahore, ha annunciato che il Vaticano ha accettato di conferirglielo.

Akash Bashir è il primo Servo di Dio nella storia della Chiesa pakistana e il primo cristiano pakistano per cui è avviata la causa di canonizzazione che, per compiersi,  prevede, dopo l’attribuzione del titolo di Servo di Dio, il conferimento del titolo di Venerabile e quindi di Beato. Un grande pannello davanti alla chiesa che ha protetto con la vita ricorda il suo sacrificio. “Lodiamo e ringraziamo Dio – ha commentato monsignor Shaw – per questo giovane coraggioso che poteva fuggire o cercare di mettersi in salvo, ma è rimasto saldo nella sua fede e non ha lasciato che l’attentatore suicida entrasse nella chiesa. Ha dato la vita per salvare più di mille persone presenti all’interno della chiesa per la messa domenicale”. “È il nostro eroe – dice di lui padre Francis Gulzar, il parroco della Saint John Church – il suo coraggio ha salvato tante persone e ha ispirato i giovani cristiani locali che adesso sono in molti a offrirsi per prestare servizio di sicurezza alla chiesa”. Anche l’arcivescovo emerito di Lahore, Lawrence Saldanha, ha preso la parola: “quando ci sono così tante notizie tristi – ha detto – questa notizia ci riempie di gioia. Akash rimane un grande modello di martire moderno. Possa ispirare e incoraggiare tutti i giovani”.

Di notizie tristi in Pakistan ne arrivano quasi ogni giorno. Nel pomeriggio del 30 gennaio, solo poche ore prima dell’annuncio che Akash era stato proclamato Servo di Dio, William Siraj e Patrick Naeem, due pastori anglicani della Chiesa del Pakistan, sono stati aggrediti mentre, di ritorno dalla celebrazioni della liturgia domenicale, percorrevano in macchina la Ring Road, la circonvallazione di Peshawaar. Due uomini a bordo di una motocicletta hanno aperto il fuoco contro di loro uccidendo padre Siraj e ferendo padre Naeem. La sera del 30 gennaio in diverse città del paese i cristiani si sono riuniti e hanno pregato. L’arcivescovo di Karachi, monsignor Benny Mario Travas, ha espresso vicinanza alla Chiesa anglicana e ha chiesto al governo di prendere provvedimenti concreti contro la violenza che minaccia le minoranze.

Il Pakistan è un Paese musulmano. I cristiani sono poco più di quattro milioni su una popolazione di oltre 212 milioni. Nell’elenco 2022 dei 50 Stati in cui per i cristiani è più difficile vivere compare all’8° posto. Il suo livello di persecuzione è definito estremo. L’associazione Open Doors che ogni anno redige l’elenco spiega che ci sono Paesi in cui la minaccia ai cristiani deriva dall’influenza di gruppi estremisti, altri in cui è il governo a perseguitarli, altri ancora in cui sono dei normali cittadini a infierire contro di loro. La persecuzione inoltre, a seconda dei contesti, si esprime in atti di violenza, vessazioni, abusi, discriminazioni.

In Pakistan nulla è risparmiato ai cristiani. Oltre agli attentati a chiese e ad altre strutture religiose compiuti da gruppi jihadisti, patiscono le conseguenze di essere considerati cittadini di seconda classe, discriminati in ogni ambito dell’esistenza. Subiscono frequenti atti di intimidazione e di violenza, doppiamente vittime perché spesso le autorità non intervengono in loro aiuto, non accolgono le denunce e non perseguono i colpevoli. Così è anche delle donne cristiane, quasi sempre ragazzine minorenni, rapite da uomini musulmani e costrette a convertirsi all’islam e a sposare chi le ha sequestrate. Motivo di grande insicurezza è inoltre la legge sulla blasfemia che li espone a denunce quasi sempre prive di fondamento e che tuttavia danno origine a mesi e anni di carcere mentre gli avvocati che li difendono cercano di evitare loro la condanna alla pena capitale.