Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
MESSAGGIO NELLA BOTTIGLIA

Agricoltura, quello che Ue e Italia non capiscono

Il mito del bio come paradigma della sostenibilità sta ponendo le basi per un disastro ecologico e agricolo. L'unica strada percorribile per garantire cibo alla popolazione mondiale è la convivenza tra agricoltura intensiva nelle aree vocate e estensiva nelle aree marginali con fini di gestione territoriale.

Creato 05_07_2021

Su Avvenire del 29 giugno è uscito l’articolo di Paolo Viana “Sulla biodinamica si gioca una scelta di campo” in cui l’autore fa un’operazione corretta sul piano giornalistico, evidenziando gli elementi chiave della diatriba circa il ruolo futuro delle agricolture bio (biologico e biodinamico) e riportando i giudizi espressi da una parte (il segretario generale di FederBio, Paolo Carnemolla) e dall’altra (la scienziata e Senatrice a vita Elena Cattaneo). L’articolo si chiude con la frase: “Adesso, anche se Bruxelles continua a pensare green, nei Paesi membri ci si preoccupa nuovamente di riempire i magazzini e qualcuno vorrebbe portare indietro le lancette dell’orologio, da Greta Thunberg a Norman Borlaug”. A questo riguardo si deve però dire che è improbabile che in Europa si possano portare indietro le lancette passando dalle rozze analisi di Greta Thunberg, alle visioni strategiche di Norman Borlaug, padre della Rivoluzione Verde e il cui testamento spirituale riposa nell’intervento da lui tenuto nel 1970, allorché ricevette il Nobel per la pace.

Il pessimismo nasce dal fatto che è troppo forte il luogo comune di matrice ambientalistica (WWF, Legambiente,…) che vuole le agricolture bio come paradigma della sostenibilità. Un mito che da decenni è diffuso a piene mani dai media e la cui penetrazione, in barba a qualunque evidenza scientifica, è attestata dai 195 favorevoli e un solo contrario (guarda caso una scienziata, la professoressa Cattaneo) con cui il Senato ha approvato il DDL 988 sul biologico.

La potenza del mito è tale che l’espansione dell’agricoltura biologica a livello europeo è fra gli obiettivi fondanti del “Green deal” e del “Farm to fork” (il progetto di sostenibilità del sistema alimentare promosso dalla Commissione Europea), e poco importa alla Commissione europea che da più parti (il Ministero dell’agricoltura Usa, la rivista Nature) si paventino conseguenze infauste sul piano ambientale con messa a coltura di nuove terre e distruzione di foreste e praterie naturali, magari non da noi ma in Amazzonia. Infatti se ad esempio in Europa si produrrà frumento bio, le cui rese sono del 70% in meno rispetto al frumento convenzionale, ci sarà bisogno di oltre il triplo della terra per produrre la stessa quantità di derrate. Tale terra in Europa non c’è, per cui la si troverà in altri continenti, esternalizzando così la distruzione dell’ambiente.

A livello mondiale sussiste la necessità di garantire con l’agricoltura il cibo e i beni di consumo a una popolazione che si avvia verso i 9,5 miliardi di abitanti attesi per il 2050, e nessun analista serio è oggi convinto che un’impresa di questo genere possa essere condotta con successo con tecnologie bio, perché obsolete, a produttività scarsissima e perciò a più elevato impatto ambientale rispetto a quelle convenzionali. Da qui la facile profezia secondo cui le agricolture della rivoluzione verde - più dinamiche e più aperte all’innovazione, chiave di volta delle sostenibilità – giocheranno anche in futuro un ruolo centrale nel nutrire il pianeta.

E qui giova osservare che la rivoluzione verde si è concretizzata nel XX secolo in quanto le grandi colture (frumento, mais, riso e soia, che oggi coprono il 64% del fabbisogno calorico globale) si sono concentrate nelle aree più vocate. In Italia tale fenomeno coinvolse per primo il riso che, proprio perché coltivato in distretti a elevata vocazonalità, manifestò una sensibile crescita delle rese già alla fine dell’800, ben prima che ciò accadesse per frumento e mais.

Forte di tali evidenze, nel 1910 Luigi Einaudi suggeriva (clicca qui) che la produzione di frumento venisse concentrata nelle zone più vocate, proprio l’opposto di quanto farà il regime fascista con la battaglia del grano, per cui si dovrà attendere il secondo dopoguerra per assistere a una crescita sensibile delle rese di frumento e mais, crescita che per quest’ultima coltura si è purtroppo interrotta nel 1995 per lo sciagurato rifiuto delle tecnologie Ogm. Da tali evidenze si può dedurre che le aree vocate di pianura andrebbero gestite con tecnologie intensive e aperte all’innovazione tecnologica.

Al contempo si deve considerare la necessità di mantenere la popolazione sul territorio per esigenze di gestione dello stesso, cruciale in primis nelle aree montane. Questo si ottiene non solo garantendo servizi efficienti (sanità, trasporti, ecc.) ma anche incentivando produzioni agricole di nicchia da tutelare con marchi che garantiscano all’acquirente quanto gli viene promesso (e qui penso non solo al biologico ma anche all’agricoltura integrata, il marchio con la piccola ape che meriterebbe un’attenzione ben maggiore da parte di pubbliche autorità e filiera commerciale).

È chiaro che questo presuppone lungimiranza e assenza di paraocchi ideologici del tipo di quelli che hanno portato i seguaci del Bio a promuovere il DDL 988 presentandolo alla collettività come un sistema di contrasto all’agricoltura della rivoluzione verde, che a loro dire avvelenerebbe il pianeta. Tale demagogia ha funzionato benissimo come strumento di marketing parlamentare (il 195 a 1 al Senato!) ma ha anche scatenato le ire di molti agricoltori che, da cittadini rispettosi delle leggi, proprio non ci stanno a passare per avvelenatori seriali.

In sintesi dunque una proposta sensata sarebbe quella di mirare a una convivenza basata sul rispetto reciproco fra agricoltori che praticano l’agricoltura intensiva nelle aree più vocate e agricoltori che nelle aree marginali praticano un’agricoltura estensiva con fini primari di gestione territoriale. Una proposta da fare a chi? Ai nostri parlamentari, ai paladini del Farm to Fork? Molto meglio il messaggio nella bottiglia: con 8000 km di coste non ci sono certo problemi di divulgazione...