Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi

EDITORIALE

Affido a coppie gay, la miopia dei cattolici

Alcune voci del mondo cattolico - compreso il vicario della diocesi di Bologna - si sono levate per giustificare l'affido di una bambina di 3 anni a una coppia omosessuale.

Editoriali 20_11_2013
Affido a coppie omosessuali

Tre indizi fanno una prova. In merito alla vicenda della bambina di tre anni affidata dal Tribunale per i minorenni di Bologna ad una coppia gay si possono raccogliere almeno tre indizi per provare che parte del mondo cattolico ha capito ben poco sull’omosessualità e sulle strategie che le lobby gay stanno pianificando per naturalizzare una condizione che naturale non è.

Ecco i tre indizi. Il primo: monsignor Giovanni Silvagni, vicario generale della diocesi di Bologna, in un’intervista al Corriere della Sera di Bologna di qualche giorno fa così si esprime sulla vicenda: «In linea generale si può dire che un bambino ha bisogno di un papà e di una mamma e, quando non li ha o da loro viene allontanato, ha bisogno comunque di un contesto che riproduca quella situazione. Questo a livello generale, poi c’è il caso singolo, concreto. […] Dico che bisogna pensare al bene della bambina e alle motivazioni che hanno spinto i giudici a ritenere opportuno il suo affidamento a quella coppia piuttosto che a un’altra. Non credo – continua il prelato -  che il giudice abbia affidato la bimba a quelle persone perché omosessuali, ma solo per fare il bene del minore”. 

In breve la tesi sposata da mons. Silvagni è la seguente: una cosa è la regola generale – è bene che un bambino venga educato da papà e mamma – e poi c’è l’eccezione, perché la stella polare da seguire è quella del “bene del minore”, stella che a volte ci porta a percorrere strade inusuali. Ma è proprio seguendo questa stella polare che si può affermare che mai due persone dello stesso sesso potranno crescere bene un bambino a loro affidato. Ce lo dicono sia una quantità strabiliante di studi scientifici (si veda l’articolo di Tommaso Scandroglio “I figli di coppie gay hanno problemi”) sia la Congregazione per la Dottrina della Fede che nel 1992 ha emanato il documento “Alcune considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali” in cui, a proposito di alcuni ruoli che non possono essere conferiti a persone omosessuali, si legge in modo assai chiaro: “Vi sono ambiti nei quali non è ingiusta discriminazione tener conto della tendenza sessuale: per esempio nella collocazione di bambini per adozione o affido”. Sostenere il contrario, cioè che in alcuni casi una coppia gay può educare rettamente un minore, è come affermare che in qualche caso una famiglia mafiosa è in grado di educare alle virtù civiche i propri figli.  In merito all’uscita improvvida di Mons. Silvagni stona poi il silenzio del suo vescovo, il cardinal Carlo Caffarra. Silenzio assenso?

Passiamo al secondo indizio. Francesco D’Agostino, presidente onorario del Comitato Nazionale per la Bioetica e presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, viene  intervistato anche lui dal Corriere e dopo aver affermato che “la decisione del Tribunale per i minorenni di Bologna è platealmente imprudente” con uguale imprudenza si affretta però a precisare che non trovando nessuna famiglia per questa piccola “avrei al limite ritenuto fisiologica la scelta di una coppia dello stesso sesso del minore”. Curioso il criterio fisiologico per legittimare l’affido omosessuale. O forse il filosofo del diritto alludeva ad una imprecisata affinità elettiva tra donne? Oppure era mosso da galanteria per il gentil sesso? Insomma anche per D’Agostino la regola generale che le persone omosessuali non sono adatte a crescere i bambini trova una rosea eccezione.

Terzo indizio. Lucandrea Massaro sul sito cattolico Aleteia afferma che in questa storia l’ideologia gay non c’entra nulla e si domanda “la verità, dov'è? In qualcosa di più semplice e più ‘normale’”. Per evidenziare tutta questa normalità che la maggior parte di noi non riesce proprio a scovare, Massaro intervista Lisa Trasforini, psicologa e psicoterapeuta, la quale da una parte ammette che la scelta del giudice è “insolita” ma dall’altra sostiene: “la bambina conosce i due adulti e li chiama 'zii': se è vero che non corrispondono al criterio elettivo tradizionale, rispondono però a quello della fiducia e della conoscenza e questo garantisce serenità alla minore, che in questo caso è il bene più importante”. Ancora una volta l’eccezione del caso concreto cannibalizza l’astratta regola generale.

Un paio di considerazioni giuridiche già accennate nell’articolo pubblicato su queste colonne qualche giorno fa (“Genitorialità impazzita, pagano i bambini”). Per legge l’affido è consentito solo alle famiglie, a persone single, a comunità di tipo familiare o infine ad un istituto di assistenza. Due persone omosessuali non sono una famiglia secondo l’art. 29 della nostra Costituzione, nemmeno sono una comunità di tipo familiare o, come ha azzardato qualcuno, due single. Senza contare poi il fatto che - anche secondo Ugo Pastore, procuratore capo della Procura dei minori di Bologna il quale ha impugnato il provvedimento del Tribunale dei minori dell’Emilia-Romagna – non si ha certezza che per questa bambina si è fatto di tutto per trovarle una famiglia normale, tacendo poi sulla circostanza che manca la firma di entrambi i genitori indispensabile per l’affido e che i due signori omosessuali siano davvero una coppia dal momento che hanno due residenze diverse. 

In secondo luogo sia per il nostro ordinamento sia in ossequio alla Convenzione dell’ONU sui diritti del fanciullo nell’affido si deve ricercare il bene oggettivo del minore, cioè si deve fare ogni sforzo per inserirlo in un ambiente che assomigli il più possibile a quello familiare dove ci sono mamma, papà e fratelli. Quindi non è vero che “la questione è obiettivamente controversa” come afferma D’Agostino: anzi sulla vicenda bolognese nulla quaestio in punta di diritto.

Ma il vero nocciolo di questa storia sta nel fatto che coloro i quali trovano delle eccezioni per legittimare l’affido ad una coppia gay non hanno compreso che il caso giurisprudenziale presente è meramente strumentale ad obiettivi più alti (o più infimi) che trascendono ahinoi le sorti di questa bambina.  E’ miopia non accorgersi che il bene della minore e il relativo balletto tra coppia gay sì o coppia gay no per l’affido non c'entrano nulla in questa storia. La vicenda è solo una tra le tante battaglie condotte nei tribunali per normalizzare l’omosessualità e per far avanzare le posizioni a favore del "matrimonio" gay e relative adozioni. 

In merito a quest’ultimo punto infatti la piccola potrebbe in futuro essere adottata dalla coppia gay puntellandosi ad un’interpretazione disinvolta dell’art. 44 comma 3 della legge 184/83 che ad oggi legittima l’adozione anche da parte di coppie non coniugate, stante però l’esistenza di alcune condizioni che nel caso di specie mancano. Ma è comunque un primo passo verso questa direzione.

A suffragio della tesi che una certa sindrome ipovisiva sui temi sensibili sta colpendo gli occhi di molti, citiamo ancora un passaggio dell’intervista di D’Agostino il quale da una parte afferma una cosa sacrosanta: “Mi pare che sia l’ennesimo tentativo della magistratura di forzare la mano per convincere l’opinione pubblica che sia normale ciò che non lo è”; ma dall’altra, forse senza saperlo, fa il gioco delle lobby gay:  il tema dell’affido a coppie omosessuali “merita, piuttosto, un approfondimento parlamentare”. Nella stessa trappola ci finisce anche l’on. Eugenia Roccella, vicepresidente commissione Affari sociali della Camera, la quale in una nota denuncia l’operazione ideologica dei magistrati ma poi, forse anche lei inconsapevolmente, offre a questa stessa ideologia una ottima sponda quando afferma “sarebbe più onesto affrontare la questione [dei “matrimoni” gay e delle adozioni] direttamente, discutendone nel luogo più pertinente, cioè il Parlamento, e aprendo un dibattito pubblico su questi temi”. Ma è proprio ciò che vogliono gli attivisti gay quando creano un caso giurisprudenziale: far pressione sul Parlamento perché legiferi. Lo abbiamo visto mille volte: con il caso di Eluana per il tema dell’eutanasia, con i ricorsi ai giudici per far cambiare la legge 40 sulla fecondazione artificiale, con l’istituzione dei registri delle coppie di fatto e dei testamenti biologici in molti comuni italiani. 

D’Agostino e Roccella, sicuramente animati da buona fede, fanno così il gioco del nemico. E il gioco ha queste regole: si tenta di modificare le leggi in accordo a comportamenti antigiuridici per farli diventare legittimi e non si chiede più ai consociati invece di essere loro ad adeguarsi con le proprie condotte alle leggi. Errato quindi affermare: se qualcosa non funziona nell'ambito degli affido che ci pensi il Parlamento. Errato perché quest'ultimo ci ha già pensato da tempo. Le leggi già ci sono e vanno bene. Allora smettiamola una buona volta di intendere come lacune giuridiche comportamenti che sono semplicemente illegittimi secondo il nostro ordinamento giuridico o come casi “controversi” situazioni che per legge sono irregolari punto e stop.