Addio note, la cultura dei ponti e il 6 politico in condotta
Addio note e punizioni alle elementari? Il problema non sta nel Regio Decreto, ma nello spappolamento della società odierna, insofferente di fronte ogni forma di imposizione quand’anche fosse a fin di bene, e per la quale parlare di doveri rappresenta una violenza. È la cultura dei ponti, del dialogo, delle bandiere arcobaleno, dell’identità fluida. Una cultura che aborrisce lo scontro, la sofferenza, il sacrificio.
Dopo molti proclami e non poche polemiche, la Camera ha finalmente dato il via libera alla riforma sull’educazione civica, reintroducendola come insegnamento trasversale nella scuola primaria e secondaria di primo e secondo grado, per un numero di ore annue non inferiore a 33 (ossia 1 ora a settimana), da svolgersi nell’ambito del monte orario obbligatorio già previsto dagli ordinamenti, dunque senza alcun incremento.
Il medesimo testo di legge contiene un emendamento che cancella le punizioni previste dal Regio decreto 26 aprile 1928, tra cui la nota sul registro e l’espulsione nella scuola primaria. La decisione non ha incontrato un unanime consenso, tanto che il Miur si è visto costretto a precisare che «viene solo operato un allineamento normativo in tutti gli ordini di scuola, con il conseguente superamento di alcune norme del passato».
In sostanza, viene esteso alla scuola primaria il Patto Educativo di Corresponsabilità, introdotto dal DPR 235 del 21 novembre 2007 (Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 24 giugno 1998, n. 249, concernente lo “Statuto delle studentesse e degli studenti” della scuola secondaria).
Nel Patto educativo di corresponsabilità, che era previsto per la sola scuola secondaria, sono definiti diritti e doveri nel rapporto tra istituzione scolastica autonoma, studenti e famiglie. Così recita l’articolo 4 dello Statuto:
“I regolamenti delle singole istituzioni scolastiche individuano i comportamenti che configurano mancanze disciplinari con riferimento ai doveri elencati nell’articolo 3, al corretto svolgimento dei rapporti all’interno della comunità scolastica e alle situazioni specifiche di ogni singola scuola, le relative sanzioni, gli organi competenti ad irrogarle e il relativo procedimento, secondo i criteri di seguito indicati.”
Saranno dunque le scuole a decidere le sanzioni da comminare e i comportamenti punibili, anche attraverso un dialogo con le famiglie.
Non sono mancati commenti positivi, come ad esempio quelli di parte dei dirigenti scolastici, per i quali finalmente non ci si dovrà più attenere a “norme risalenti addirittura all’anteguerra, gli articoli dal 412 al 414 del Regio Decreto 26 aprile 1928, che addirittura parlano espressamente di ‘pene’ riferendosi alle sanzioni disciplinari che si possono infliggere a un bambino”.
Si tratta di considerazioni interessanti, perché mettono in luce il contesto culturale in cui la decisione è maturata. L’idea che “norme risalenti addirittura all’anteguerra” siano per ciò stesso superate, così come lo scandalo che si parli di “pene” (etimologicamente “pena” è un castigo che produce sofferenza…) la dicono lunga. Da una parte, infatti, emerge la concezione erronea secondo cui il progresso è in sé stesso positivo e, dunque, norme di cento anni fa sono necessariamente superate; dall’altra, che la scuola non deve punire ma solo convincere, tuttalpiù ammonire e comunque comprendere, privilegiando il dialogo. Siamo di fronte, insomma, alla ennesima conseguenza della deriva sessantottina che ha devastato la società e demolito la scuola, andando a minarne le fondamenta educative. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti, ma evidentemente non basta.
Nel merito, occorre precisare che le terribili punizioni - le “pene” - di cui si parla nel decreto del 1928 non sono violenze fisiche o umiliazioni come le orecchie d’asino stando dietro la lavagna o in ginocchio sui ceci, (come l’immaginario collettivo, alimentato da una certa narrazione, farebbe intendere) bensì da provvedimenti che vanno dalle semplici note sul registro con obbligo di notifica alla famiglia fino alla sospensione. Può essere utile riportarle per esteso:
Art. 412 –
Verso gi alunni che manchino ai loro doveri si possono usare, secondo la gravità delle mancanze, i seguenti mezzi disciplinari:
I ammonizione; II censura notata sul registro con comunicazione scritta ai genitori, che la debbono restituire vistata; III sospensione dalla scuola, da uno a dieci giorni di lezione; IV esclusione dagli scrutini o dagli esami della prima sessione; V espulsione dalla scuola con la perdita dell'anno scolastico.
E' vietata qualsiasi forma di punizione diversa da quelle indicate in questo articolo.
Art. 413.-
Le pene di cui ai numeri 1, 2 e 3 sono inflitte dal maestro, quelle di cui ai numeri 4 e 5 sono inflitte dal direttore didattico governativo o comunale con provvedimento motivato. Contro le pene dell'esclusione e dell'espulsione è ammesso, entro quindici giorni, reclamo all'ispettore scolastico, contro la cui decisione non è consentito alcun ricorso.
Art. 414.-
Le pene, che importano allontanamento anche temporaneo dalla scuola, non possono essere eseguite, se prima non ne sia stato dato avviso per iscritto alla famiglia.
Come è evidente, il problema non sta nel Regio Decreto, ma nello spappolamento della società odierna, insofferente di fronte ogni forma di imposizione quand’anche fosse a fin di bene, e per la quale parlare di doveri rappresenta una violenza. È la cultura dei ponti, del dialogo, delle bandiere arcobaleno, dell’identità fluida. Una cultura che aborrisce lo scontro, la sofferenza, il sacrificio.
Certo, nella scuola (come in ogni altro contesto educativo) si deve punire solo quando gli altri strumenti di persuasione risultano inadeguati, quando appare inutile ogni tentativo di riportare al rispetto di un ordine collettivo stabilito, e quando si reputa che la “pena”, cioè la sofferenza che consegue ad una grave mancanza, sia utile alla maturazione della persona. Però, quando si valuta che è necessario punire, occorre avere gli strumenti adeguati per farlo. Perché è educativo imparare –anche soffrendo- che i nostri atti hanno delle conseguenze e imparare a prendersene la responsabilità!
Sorge il sospetto che in realtà questo emendamento sia un modo per togliere le castagne dal fuoco a tanti dirigenti che temono grane con i genitori sempre più inclini a difendere i figli, ad accusare la scuola e aggredire gli insegnanti, anche di fronte a evidenti mancanze. Eliminata la sanzione, eliminato il problema….E’ una specie di “sei politico” disciplinare.
Molto probabilmente, grazie al Patto Educativo di Corresponsabilità, tante scuole redigeranno regolamenti politicamente corretti, improntati ad un esasperato buonismo/garantismo che finirà per paralizzare ogni possibilità di procedimento disciplinare, privilegiando il dialogo fra due soggetti –l’istituzione scolastica e la famiglia- che in realtà faticano a dialogare proprio perché sempre più evanescenti e spesso privi di una identità definita.
Si chiedeva Pierluigi Castagneto nel suo articolo su un quotidiano online:
“Cosa rimane ai docenti per riportare all’ordine certi comportamenti sbagliati che sussistono anche nei bimbi più piccoli? E come si può far capire ai genitori che approvano quasi sempre i capricci dei loro figli, anche tra i banchi, che non possono approvare gli errori dei loro intoccabili prìncipi? Quali strumenti hanno gli insegnanti per correggere certi comportamenti insani? Anche tra i bimbi esistono (purtroppo) piccoli bulli e certo in questi casi la persuasione non serve. Se i parlamentari avessero condotto una seria indagine coinvolgendo le insegnanti della primaria, che spesso non hanno alcuno strumento per poter condurre le lezioni in modo ordinato, avrebbero certamente rinviato e approfondito il tema disciplinare, che nelle scuole sta diventando un’altra emergenza: dei bambini e dei loro genitori.”
Non siamo certi che sia questo il modo migliore per far crescere le nuove generazioni.