Accogliere non vuol dire agitare le masse
Ci sono vari modi per vanificare il richiamo che papa Francesco ha fatto con la sua visita a Lesbo. Uno è quello, purtroppo serpeggiante anche in molti ambienti del volontariato cattolico, che consiste nel far proprio il metodo dell’ “agitazione” di antica matrice marx-leninista.
“Dobbiamo fare ponti, ma i ponti si fanno intelligentemente, si fanno con il dialogo, con l’integrazione. (…) L’Europa deve urgentemente fare politiche di accoglienza e integrazione, di crescita, di lavoro, di riforma dell’economia… Tutte queste cose sono i ponti che ci porteranno a non fare muri”, ha chiarito papa Francesco rispondendo sabato a una domanda rivoltagli durante la conferenza stampa sull’aereo in volo da Lesbo a Roma. La questione merita ampio approfondimento. Il frequente appello del Papa a costruire non muri ma ponti è troppo importante per rassegnarsi a che venga svuotato riducendolo a vuota retorica; oppure a che venga strumentalizzato a sostegno di progetti politici che con esso non hanno nulla a che fare.
Fedele al suo compito di alta guida morale, recandosi a Lesbo papa Francesco ha voluto evidentemente richiamare alle sue responsabilità chi può intervenire per porre fine a un esodo ormai divenuto una grande emergenza umanitaria: l’emergenza del XXI secolo come tempestivamente intitolammo il libro della Bussola scritto da Anna Bono sull’argomento. E portando con sé a Roma tre famiglie di profughi che colà si trovavano ha inteso compiere nel medesimo tempo, come è nel suo stile, un gesto tanto simbolico quanto clamoroso. Non abbiamo poi tempo e titolo per parlarne qui, ma dobbiamo almeno accennare pure al grande significato ecumenico dell’incontro che nella circostanza è avvenuto tra lui, il patriarca di Costantinopoli, Bartolomeo, e l’arcivescovo di Atene e di tutta la Grecia, Ieronymos. Mentre non mancano precedenti di storici incontri tra il Pontefice e il Patriarca, e anche tra loro predecessori, mai fino ad oggi un arcivescovo di Atene, capo di una delle Chiese ortodosse più importanti ma anche meno disponibili al dialogo con Roma, si era mai incontrato con un Papa.
Torniamo però al tema delle attuali migrazioni di massa verso l’Europa e alle nostre responsabilità al riguardo in quanto europei e in quanto cittadini. Ci sono vari modi possibili per vanificare il richiamo che papa Francesco ci ha fatto con la sua visita a Lesbo e con i gesti che l’hanno caratterizzata. Uno è quello, purtroppo serpeggiante anche in molti ambienti del volontariato cattolico, che consiste nel far proprio (speriamo in modo inconsapevole) il metodo dell’ “agitazione” di antica matrice marx-leninista. In forza di questo metodo il problema non viene portato alla ribalta allo scopo di affrontarlo e possibilmente di risolverlo. Viene bensì soltanto denunciato, e se possibile incancrenito, per servirsene a fini di generale delegittimazione di chi ha responsabilità di governo. Tale essendo l’obiettivo, chi è sul campo deve fare il possibile non per migliorare la situazione bensì per complicarla. Un altro modo per vanificare il richiamo di papa Francesco è quello di metterlo strumentalmente al servizio del progetto politico di chi vede nell’attivazione di flussi immigratori indiscriminati e incontrollati un mezzo per sgretolare la società europea e la sua identità culturale aprendola così per altra via a una nuova stagione rivoluzionaria.
Non c’è bisogno di dire che ovviamente non sono queste le strade che papa Francesco ci invita ad imboccare. Il suo è un invito ad agire perché fare ponti “intelligentemente” diventi qualcosa di possibile grazie ad adeguate “politiche di accoglienza e integrazione, di crescita, di lavoro e di riforma dell’economia”. Il problema è gigantesco sia per dimensioni che per complessità. Come già avemmo modo di scrivere alla sua radice sta una consolidata ragione strutturale. Si tratta dell’enorme squilibrio in quanto a tenore di vita, e perciò in quanto a qualità dei servizi, tra Paesi che gli attuali sistemi di telecomunicazione e di trasporto hanno peraltro reso prossimi e intercomunicanti. Senza pregiudizio per l’urgenza di risposte per così dire di pronto soccorso, a lungo termine la soluzione del problema non è comunque quella di tenere costantemente aperta l’Unione Europea a flussi migratori spontanei e quindi per natura loro non governabili.
I Paesi più poveri sono poi spesso preda di crisi e di guerre, ma ciò semplicemente si aggiunge a un divario di risorse e perciò di qualità della vita che già di per sé costituisce una potente spinta all’esodo di chi se lo può permettere, ossia di coloro che sono relativamente più agiati e più istruiti. Perciò queste migrazioni non governate finiscono anche per dissanguare i Paesi più poveri di risorse umane e professionali che, se fossero motivate a restare sul posto, potrebbero dare un utile contributo al loro sviluppo.
Osserviamo poi che gruppi di interesse sono schierati con forza a favore delle armi e della guerra non solo nell’emisfero Nord, nel mondo sviluppato, ma anche nell’emisfero Sud. Ci sono ricchi e poveri sia da una parte che dall’altra, e ciò rende le cose ancora più complicate. Pur senza essere la causa strutturale di queste migrazioni spontanee di massa, le guerre ne sono comunque il detonatore. Se dunque le grandi potenze non si accordano per porre termine alla guerra in Siria e ad altri conflitti, dei quali tutti tengono le redini, tali esodi non potranno mai trovare fine. Il processo di riequilibrio dello sviluppo non sarà dunque né rapido né semplice; e implica responsabilità che incombono non solo sui Paesi più ricchi ma anche sui governi e sui ceti dirigenti dei Paesi più poveri. La corruzione di questi ceti dirigenti è tale da rendere attualmente quasi impossibile un’efficace politica di aiuti pubblici allo sviluppo. Se insomma tutti quanti aspetti del problema non vengono affrontati nell’ insieme, niente potrà fermare questi esodi di massa dal Sud al Nord del mondo con tutte le tragedie che li accompagnano.