Abusi, tra collasso teologico e insufficienza del diritto
Gli appunti di Benedetto XVI hanno toccato anche le difficoltà di indagine sui casi di abusi, che affondano nella debolezza del Codice: per alcuni non dovrebbe avere norme penali perché non compatibili con la misericordia. La Nuova BQ intervista il teologo Woodall: "Il Diritto deve insistere sull’obbligo del vescovo di denunciare. C’è un gran numero di casi e il personale è molto limitato".
-BENEDIZIONE A COPPIE GAY, NUOVO STRAPPO TEDESCO di Giuliano Guzzo
Gli “appunti” di Benedetto XVI sono un documento di grande densità teologica. Abbiamo chiesto al prof. Don George Woodall, Ordinario di Teologia morale all’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma di aiutarci a coglierne meglio alcuni aspetti. Don Woodall è stato Promotore di giustizia per la diocesi di Nottingham dal 2011 al 2014, esperienza che gli permette di esprimere con cognizione di causa anche alcune considerazioni sulla disciplina canonica relativa ai casi di abuso su minore da parte di chierici.
Potrebbe aiutarci a capire meglio quel fenomeno di “collasso della teologia morale cattolica”, verificatasi particolarmente negli anni successivi al Concilio, cui ha fatto riferimento Benedetto XVI?
La teologia morale classica aveva sempre cercato di specificare oggettivamente ciò che è moralmente giusto e cosa cattivo. Prima e durante il Concilio si era avvertita l’esigenza di un rinnovamento della morale, con un maggiore ancoraggio biblico ed un più forte orientamento cristocentrico. All’interno della discussione sollevata intorno a Humanae vitae, tanti teologi provavano un certo “fastidio” nel sentir parlare di ciò che si doveva e ciò che non si doveva fare; spingevano piuttosto nella direzione dell’ “agire secondo coscienza”, senza badare adeguatamente alla norma morale, spesso in aperto contrasto con la dottrina sulla contraccezione.
Si era creata un’opposizione tra coscienza e norma: o l’una o l’altra.
Si è esasperata la tensione tra le due realtà, come se fossero in contrapposizione. Veritatis Splendor ribadisce la posizione classica: con la norma, con la verità morale e oggettiva, la coscienza viene formata, illuminata, evitando di compiere ciò che di per sé è immorale.
Una delle prime reazione a questi “appunti” di Benedetto XVI, mi riferisco a don Aldo Antonelli, è stata proprio quella di rimproverare a Benedetto di non aver colto la svolta morale post-conciliare dalla legge alla coscienza.
Mi pare che sia una strumentalizzazione della dottrina conciliare sulla coscienza. Il Concilio non ha mai detto questo. Normalmente ci si limita a riferirsi a Gaudium et Spes, 16, che parla della coscienza come sacrario dell’uomo, dove riecheggia la voce di Dio, etc. Però questo stesso testo dice che l’uomo scopre in questa sua coscienza una legge che non si è dato da se stesso. Non mi pare fedele all’insegnamento conciliare sottolineare un aspetto della coscienza e trascurare l’altro. In GS 51, in riferimento alla paternità responsabile, di nuovo si dice che certamente i coniugi devono giudicare in coscienza, ma non secondo il proprio arbitrio, bensì secondo criteri oggettivi. I paragrafi 54- 64 di Veritatis Splendor sono essenziali per capire la posizione della Chiesa e per un’ermeneutica corretta del Concilio.
Benedetto XVI parla anche di una messa in discussione dell’autorità della Chiesa in re morali.
Come si è detto, il rinnovamento della teologia morale voleva essere anche un rinnovamento biblico, giustamente. Però, non tutto ciò che riguarda la vita morale si trova in modo esplicito, ed ancor meno sistematico, nella Sacra Scrittura. Tutti hanno riconosciuto che si trattava di un’impresa più complicata di quanto si pensasse. Però è indiscutibile che nella Sacra Scrittura, quando il Signore chiama a seguirlo, nelle diverse alleanze, c’è sempre stata una “carta” dell’alleanza. Pensiamo all’Esodo: seguire il Signore significava non uccidere, non commettere adulterio, etc. Senza un certo atteggiamento non c’è sequela vera. All’inizio del Vangelo c’è proprio l’appello alla conversione, non solo alla fede (Mc. 1, 14-15//). Negli Atti degli Apostoli, 2,38, si trova lo stesso appello alla conversione e quindi al battesimo. Il battesimo esige una radicale conversione morale.
Questa esigenza è stata recepita nel catecumenato antico, che non era solo una spiegazione della fede, ma un radicale cambiamento dei costumi.
Certo. Era un percorso morale serio. San Paolo dice espressamente, parlando del matrimonio, “agli sposati ordino, non io ma il Signore, che la moglie non si separi dal marito,...” (1Cor. 7, 10). Due versetti dopo dice: “Ma agli altri dico io, non il Signore”, interpretando cioè con autorità la dottrina del Signore, per delle situazioni che Gesù non ha affrontato direttamente. Abbiamo cioè un magistero morale da parte di San Paolo, presente e autorizzato dal Nuovo Testamento; non si capisce perché allora dovrebbe essere negato al magistero contemporaneo l’autorità di esprimersi in ambito morale. Il problema è che alcuni teologi della corrente sopra accennata, pensavano di dire che il magistero ha sì competenza nell’ambito della fede, perché si tratta della Rivelazione, e nell’ambito espressamente religioso; però per la vita morale non “religiosa”, cioè i rapporti tra gli uomini, la vita sessuale, etc. hanno negato o messo in dubbio che il magistero abbia competenza; hanno concesso che potesse consigliare ed esortare, ma non insegnare norme precise vincolanti autenticamente né ancor meno infallibilmente.
Come rispondere a questa obiezione?
In Veritatis Splendor 25-27, si condanna questa separazione tra magistero esortativo e magistero così vincolante e si afferma espressamente che nei Vangeli e nelle catechesi degli Apostoli la Chiesa si è espressa anche in ambito morale, specificando anche ciò che è compatibile con il Vangelo e ciò che non è mai ordinabile ad una vita coerente con la fede cristiana.
Nella seconda parte dei suoi “appunti”, Benedetto XVI parla di una insufficienza del Diritto Canonico ad affrontare la questione degli abusi di chierici su minori e della decisione di spostare la competenza di questi casi dalla Congregazione del Clero alla Dottrina della Fede. A suo avviso c’è stato un miglioramento e può esserci un miglioramento ulteriore?
Faccio una premessa. Questo problema degli abusi sessuali su minori nel passato è stato affrontato in modo “segreto”. C’erano delle leggi “segrete”. Benedetto XV nel 1922 aveva legiferato sui vari delitti riservati al Sant’Uffizio, tra i quali c’era anche questo problema. Giovanni XXIII aggiornò questo documento nel 1962, ma rimase una cosa segreta e confidenziale: venne comunicata a tutti i vescovi diocesani, ma fu chiesto loro di mantenere questo documento nell’archivio segreto delle curie diocesane. Il risultato fu che molti vescovi nuovi non ne sapevano nulla. Il Codice del 1983, in particolare il libro sesto e una parte del settimo, risulta molto inadeguato e rende difficile operare. Lo so per diretta esperienza. Tutto il Codice rispecchia la ricchezza del Vaticano II, ma anche una certa debolezza: ci si chiedeva persino se avere un codice penale nella Chiesa fosse compatibile con la misericordia e la riconciliazione. A livello pratico, questo si traduceva con il fatto che, prima di avviare una procedura penale, ci si attendeva che il Vescovo facesse tutto il necessario per correggere il malfattore.
Un esempio concreto?
Supponiamo una denuncia sessuale di abuso su un minorenne. Il Vescovo poteva pensare di dover cercare di correggere la persona ed aiutarla pastoralmente, prima di avviare un processo penale. E questo non va bene. Quando l’indagine previa giunge ad indizi probabili circa il delitto commesso e la persona che lo ha commesso, il Diritto dovrebbe insistere sul fatto che il Vescovo ha l’obbligo di denunciare alla Congregazione ed avviare così un processo penale.
Attualmente quest’obbligo non c’è?
No, non c’è. Si dice che il Vescovo deve decidere, ma non è obbligato. E questo non va bene. Inoltre, un’interpretazione a mio avviso sbagliata, ma comprensibile, delle esigenze del libro sesto, è la seguente: si pensava di dover avere delle prove certe prima di poter avviare qualsiasi processo. Lo so per certo, avendo studiato alcuni testi sui casi di abuso in Irlanda. Invece non sono necessarie prove certe, ma indizi chiari che sia stato commesso un delitto canonico e che un determinato chierico debba rispondervi. Quando c’è una denuncia l’ordinario (p. e. il Vescovo diocesano) deve indagare in modo discreto per capire se effettivamente sussiste un delitto canonico e quale sia la persona realmente coinvolta. Accertate queste due cose, il Vescovo dovrebbe aprire un processo o giudiziale o amministrativo. Molte volte questo non è avvenuto, preferendo avviare prassi pastorali, come lo spostamento del sacerdote e la cura in centri di psicoterapia, etc. Comunque non affrontando la questione in modo canonico. Per questo Roma ha avocato tutto alla Congregazione per la Dottrina della Fede, perché molti Vescovi non avevano agito correttamente.
Questo cambiamento ha migliorato la situazione. Però c’è un problema di sovraffollamento.
A mio avviso, le norme del 2001 sono state un grande passo avanti. Dietro c’erano Ratzinger e Scicluna. Benedetto XVI ha ulteriormente aggiornato queste norme nel 2010 - e sono le norme attualmente vigenti -, che sono molto buone, ma c’è un gran numero di casi ed il personale competente è molto limitato: sono oberati di lavoro. Secondo me, bisognerebbe estendere il numero di queste persone. Alla Dottrina della Fede, per esempio, c’è un solo promotore di giustizia: dovrebbero essercene diversi, per ciascuna lingua maggiore.
Gli atti omosessuali con maggiorenni rientrano nei delitti maggiori?
No. Evidentemente è un gravissimo peccato, ma non un delitto. Sarebbe un delitto se fosse effettuato con abuso d’ufficio. Penso che anche quando un Vescovo non procede correttamente in caso di denuncia di abusi su minori potrebbe essere trattato come abuso d’ufficio. Un altro problema riguarda sempre l’indagine previa del Vescovo, quando riceve una denuncia. Penso che questa indagine non dovrebbe essere fatta dal Vescovo, ma da una persona canonicamente qualificata e con esperienza in diritto penale. Altrimenti, se una persona non sa cosa fare, in buona fede, potrebbe compromettere un’eventuale causa.
Torniamo al caso di atti omosessuali su maggiorenni. Si è detto che non è un delitto. Ma in questi casi il Vescovo a cosa è tenuto?
Il Vescovo deve indagare e interpellare il sacerdote denunciato; se il sacerdote ammette o se, pur negando, gli indizi sono importanti, il Vescovo può rilasciare un precetto penale, cioè può imporre un ordine, ricordandogli i suoi obblighi da chierico, imponendogli di evitare certi luoghi o di fare qualsiasi altra cosa che potrebbe compromettere il suo celibato o provocare scandalo. Se poi dovesse esserci un’altra denuncia, ci sarebbe un delitto, quello di aver violato il precetto penale imposto. Se il fatto fosse davvero scandaloso e grave, allora si configurerebbe come un delitto, secondo il can. 1399. Quindi il Vescovo potrebbe avvalersi di questo canone. Ma il minimo che dovrebbe fare è quello di imporre un precetto penale.
Il precetto penale, il Vescovo può o deve farlo?
Può, se i fatti lo giustificano, perché il precetto, per la sua validità, dev’essere motivato.