A Flores d'Arcais: nessuno vuole la morte
La posizione espressa da Paolo Flores d'Arcais a proposito della recente sentenza della Consulta - «Nessuno decida per me» - può essere confutata non sul piano dell'etica ma su quello della ragione. Ecco come....
Caro direttore,
sui temi indicati eufemisticamente del “fine vita”, dopo la recente sentenza della Consulta mi hanno colpito le argomentazioni che Paolo Flores d’Arcais ha espresso sul suo blog alcuni giorni fa, ripreso dall’Huffington Post. Eccone un paio di passaggi: «In una società pluralista dove sull’argomento esistono e devono convivere opzioni morali differenti e anche conflittuali, ci sono solo due modi di stabilire la convivenza: o ciascuno sceglie liberamente sul proprio fine vita secondo i propri principi etici, e non pretende di imporre i propri agli altri. Oppure ciascuno pretende che i propri valori debbano essere imposti a tutti gli altri con la forza della legge (…)Del resto basta fare un piccolo esperimento, ponendo a ciascuno una domanda precisa: sul tuo fine vita preferiresti decidere tu, o che decida un estraneo, con valori morali magari opposti ai tuoi? In tutti i dibattiti di presentazione del mio libro non ho mai trovato qualcuno che preferisse che sul proprio fine vita decida un estraneo, magari “nemico”. Dunque esiste un principio che fa l’unanimità: nessuno accetta che sul proprio fine vita decida un altro, sconosciuto, con principi etici opposti ai propri». E quindi, ancora PFA: «Di conseguenza, quando si invoca una soluzione condivisa, come se fosse difficilissimo trovarla, si evita di vedere che esiste già una soluzione che di fatto ottiene l’unanimità: nessuno accetta che sul proprio fine vita decida una morale opposta alla propria. (…)Nel 2001 pubblicai su MicroMega un confronto tra Sua Eminenza Tettamanzi e me, le cui conclusioni riprendo nel mio piccolo libro Einaudi. Il cardinal Tettamanzi era in conclusione arrivato ad riconoscere che senza la fede in Cristo risorto non è possibile dire un no assoluto all’eutanasia».
La lunga citazione era necessaria per dire quel che, nel mio piccolo, penso. E cioè: non è possibile confutare la posizione di Flores se si resta sul piano dell’etica; l’unica strada per farlo è quella della ragione, correttamente intesa e adeguatamente usata.
Cerco di spiegarmi. È senz’altro vero che nell’adesione libera e consapevole alla persona di Gesù tutto l’orizzonte umano e anche il mistero della morte e della sofferenza non sono bypassati — il Signore non ci fa fare scorciatoie — ma sono abbracciati e condotti verso un destino che va oltre quella che sembra essere e non è l’ultima parola.
Ma anche prima di questo passo libero e liberante, ciascuno di noi se guarda con sincera disposizione alla sua esperienza ha di fronte a sé due evidenze che la ragione è sempre in grado di cogliere e il cui richiamo mi pare sia tra i più importanti lasciti del grande insegnamento di monsignor Luigi Giussani.
La prima evidenza: io non c’ero e ora ci sono, quindi l’esistenza e la vita non me le sono date da me. La seconda: io non “voglio” la morte; nessuno vuole morire; la predisposizione originale della mia autocoscienza — non saprei come definirla non essendo uno specialista — è per il permanere della vita, della “mia” vita. Dentro di me c’è una spinta originale, primigenia, irriducibile verso l’essere, l’esserci. E infatti la morte è percepita da sempre e da tutti come un’offesa, un insulto a questa energia insopprimibile, come un’enorme e oscena ingiustizia di cui la tortura della sofferenza è un ulteriore pegno. Questa è la vera e più profonda “unanimità” per usare l’espressione di PFA.
Ma, si dirà, proprio l’esperienza ci dice che è possibile “volere la morte”, abbiamo tutti ben in mente tanti casi! Casi che mi pare si possano ridurre a due. Il primo è quello dell’iniziativa arbitraria e ribelle di chi cerca in quel gesto supremo un’ultima affermazione di sé; affermazione che, per essere attuata, deve comunque censurare e soffocare quella tensione verso la vita che brilla, anche solo come fiammella, nel cuore di tutti e di ciascuno.
Il secondo caso è quello di cui si discute: il “farla finita” per porre fine, con la vita, al calvario delle sofferenze. Qui è proprio evidente: anche nel malato terminale, nel depresso senza speranza permane invincibile la freccia che punta verso la vita. Essi non “vogliono la morte”, vogliono la fine delle sofferenze.
E quindi, la risposta a Flores e a molti altri è una sfida, non polemica, ma comunque nitida: usciamo dal relativismo delle “morali” e prendiamo in mano quella facoltà che tutti ci accomuna, la ragione, seguendone con lealtà i passaggi.
E chiediamoci: se, come la ragione ci dice, tutti — tutti — abbiamo “dentro” e in comune l’intimo e indomabile desiderio della vita; se il mistero orrendo e atroce della morte e di quel suo anticipo che è la sofferenza sono il nemico che tutti ci accomuna. Se è così, cosa è più umano — questa è la domanda da porre mi pare! — cosa è più corrispondente all’uomo, all’uomo nella sua nudità ultima? Assecondare la morte facendosene attivamente complici o — pur nell’impossibilità di vincerla — accudire, consolare, lenire, abbracciare e condurre così verso un “fine vita” questo sì dignitoso perché all’altezza di tutto il nostro essere?
In questo modo — solo in questo modo — la domanda di Flores “preferiresti decidere tu o un estraneo?” è spiazzata e superata dal riconoscere quell’ultima e definitiva evidenza: e cioè nel riconoscere — con la ragione! — che siamo già “segnati” sin dal momento in cui veniamo alla luce da una decisione per la vita e per “la vita per sempre” e che a questo marchio si oppone in modo misterioso una forza oscura e invincibile.
Abbiamo letto più volte in queste settimane l’appello a “restare umani”. Dare mani e strumenti a quella forza oscura che ci è nemica non è forse la peggiore e definitiva disumanità?
Marco Berchi