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MEDIO ORIENTE

Israele, la marcia per gli ostaggi e lampi di guerra in Cisgiordania

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Drammatica dimostrazione dei parenti degli ostaggi prigionieri di Hamas e di decine di migliaia di persone che hanno partecipato in solidarietà. Intanto il conflitto si accende anche in Cisgiordania. 

Esteri 20_11_2023
Israele, la marcia per gli ostaggi (La Presse)

Sono partiti da Tel Aviv alla volta di Gerusalemme. Hanno percorso a piedi i sessantatré chilometri, lungo la strada che collega la capitale di Israele alla Città Santa. Issavano bandiere israeliane, ma soprattutto cartelli con le foto dei loro cari rapiti e, attualmente, segregati in un luogo sconosciuto nella Striscia di Gaza. Il lungo serpentone era partito cinque giorni fa. Tutti i partecipanti avevano una sola richiesta per il Primo ministro Benjamin Netanyahu: riportare a casa i loro familiari, rapiti in quel tragico 7 ottobre. Quel giorno, i miliziani di Hamas, dopo aver ucciso 1400 persone, catturarono circa 240 ostaggi, tra cui 33 bambini. 

«Li riporteremo a casa», con questo slogan scandito durante tutto il viaggio, gli oltre trentamila manifestanti sono giunti lo scorso sabato pomeriggio davanti agli uffici del Primo ministro Netanyahu. Yuval Haran, i cui familiari sono stati rapiti e che ha dato inizio alla marcia, ha detto che la protesta pacifica continuerà e che quarantatré giorni di segregazione dei familiari sono troppi. Ha poi proseguito: «Continueremo con tutte le nostre forze fino a quando tutti saranno riportati a casa».

I manifestanti sono poi tornati a Tel Aviv, dove ha sede il Gabinetto di Guerra, nella piazza Museo dell’Arte, soprannominata "Piazza degli ostaggi", per incontrare il ministro Benny Gantz, che tutti i sondaggi indicano come il personaggio politico che potrebbe guidare il prossimo governo e l'ex capo di Stato maggiore dell'esercito Gadi Eisenkot, anche lui cooptato nel gabinetto di crisi come consulente. «Il loro ritorno a casa è una delle nostre priorità - ha detto Eisenkot -. Per distruggere Hamas ci vorrà del tempo, ma per i prigionieri non c'è più tempo». Netanyahu, dal canto suo, nel corso di una conferenza stampa, ha ribadito la volontà di riportare a casa tutti gli ostaggi.

Nel frattempo, la situazione a Gaza diventa sempre più drammatica. Secondo l'Agenzia EuroMed, un gruppo informale che riunisce nove paesi dell'area mediterranea dell'Unione Europea, i morti sarebbero oltre 15.200, di cui 6.403 bambini, 32mila feriti e 4.100 scomparsi. Mentre i soldati israeliani uccisi dall'inizio delle operazioni di terra nella Striscia sarebbero 56. Un missile ha colpito, distruggendola, la scuola al-Fakhura, una struttura utilizzata anche come riparo dai rifugiati del campo di Jalabja. «Basta fratelli, fermate le armi - ha detto il Pontefice durante l’Angelus -. In questo momento buio prego tanto per loro, le armi non porteranno mai pace. Basta, fratelli, a Gaza si soccorrano i feriti, si facciano arrivare gli aiuti umanitari, si liberino gli ostaggi, tra cui molti sono anziani e bambini».  E il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, ha sottolineato, che si sta “lavorando” ad un possibile incontro tra il Papa e i familiari degli ostaggi: «Speriamo di poterlo realizzare al più presto».

Ma anche la Cisgiordania rischia di infiammarsi e per il governo Netanyahu questo, oltre a Gaza e al confine con il Libano con gli Hezbollah, sarebbe il terzo fronte di guerra. Per la prima volta, dopo la Seconda intifada, l'aviazione dell'esercito israeliano ha sferrato degli attacchi in Cisgiordania colpendo un'abitazione a Nablus: cinque palestinesi sono morti, mentre il portavoce dell'esercito con la Stella di Davide ha sottolineato che quattro delle persone uccise nell’incursione aerea appartenevano alla Brigata dei Martiri di Al-Aqsa di Fatah. Anche a Jenin, secondo quanto ha denunciato il vicegovernatore, Kamal Abu al-Roub, le forze israeliane hanno ucciso sette palestinesi. Secondo il portavoce militare israeliano, cinque sono stati colpiti a morte nel corso di un'operazione portata a termine a Jenin, gli altri due in uno scontro a fuoco, ad un posto di blocco a Hebron. Dall'attacco di Hamas del 7 ottobre, incursioni quotidiane dell'esercito israeliano si sono verificate all’interno del campo profughi di Jenin, con decine di veicoli blindati e centinaia di soldati, che recentemente hanno utilizzato anche delle ruspe. «Vogliono distruggere il nostro morale. Demoliscono le nostre case, fanno saltare in aria le strade e distruggono le proprietà, per provocare la nostra reazione e aizzare il nostro odio contro la resistenza e i combattenti, ritenendoli causa di quanto accade. Ma questo non accadrà», ha dichiarato Fatina Ahmad, assistente sociale a Jenin.

Betlemme è una città chiusa. La gente ha paura di uscire. I posti di blocco non sono accessibili da parte dei palestinesi che da giorni non possono andare al lavoro a Gerusalemme. I varchi possono essere attraversati soltanto per motivi sanitari certificati, per cure salvavita, come quelle oncologiche. Chiese e negozi sono chiusi. I pellegrini, ritornati in gran numero dopo il periodo della pandemia, non ci sono più e la vita inizia ad essere difficile. Quest’anno non ci saranno neanche i festeggiamenti per il Natale ma soltanto le celebrazioni liturgiche.

Che il Primo ministro Netanyahu stia usando il pugno di ferro contro i palestinesi lo dimostra la recente decisione adottata dal governo di togliere il diritto di residenza permanente a tutti quei cittadini che sarebbero o sembrerebbe essere coinvolti con gruppi, ritenuti dal governo, sovversivi. Senza nessun processo. Va detto che i palestinesi che vivono nella Gerusalemme Est non hanno la cittadinanza e non possiedono il passaporto israeliano.

Nel frattempo, a nord, al confine con il Libano la situazione diventa sempre più incandescente. In un comunicato, il ministero della Salute libanese, ha dichiarato che sono 77 le vittime finora registrate in poco più di un mese di scontri a fuoco nei pressi dei villaggi al confine con Israele, 250 i feriti e, come riporta l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), oltre 26mila sono gli sfollati. Delle 77 vittime, non meno di 60 sono miliziani del partito sciita, meno di una decina i civili e i restanti sarebbero combattenti di altre formazioni che hanno “aderito” all’apertura parziale di un secondo fronte di guerra, oltre a quello che si sta consumando a Gaza. Quello che però impensierisce è la compattezza dei vari gruppi terroristici presenti in Libano.

Papa Francesco, ricevendo recentemente il presidente della Repubblica d’Iraq, Abdul Latif Jamal Rashid, si è dichiarato molto preoccupato per la situazione in Medio Oriente, sottolineando nel colloquio alcune tematiche internazionali, con particolare riferimento al conflitto in Israele e Palestina, e all’urgente impegno per la pace e la stabilità.