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IL CAMBIO DI META

Zuckerberg ammette che il fact checking è censura. E noi ne siamo vittime

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Basta con il fact checking: anche Zuckerberg ritiene che i presunti controllori della verità delle notizie sono troppo politicamente orientati. Fine del regime di censura su Facebook e sugli altri social network di proprietà di Meta. Ma il danno già fatto alla libertà di informazione è enorme e solo negli Usa saranno più liberi. In Europa no, perché c'è sempre il Digital Services Act. 

Attualità 09_01_2025
Il logo di Meta (La Presse)

Mark Zuckerberg, il fondatore e amministratore delegato di Meta (azienda proprietaria di Facebook, Instagram e Whatsapp) ha annunciato il 7 gennaio un cambiamento radicale di politica. E di fatto ha ammesso che finora era imposta una censura, benché non ufficiale, sui suoi social network.

Niente più fact checking, che verrà sostituito dalle community notes (commenti scritti da altri utenti che vogliono segnalare un articolo) e alleggerimento drastico delle regole che limitavano la pubblicazione dei contenuti, i ricorsi e la rimozione di contenuti, niente più restrizioni alla visibilità degli argomenti politici e stop allo shadow ban, cioè la pratica di rendere meno visibile quel che pubblica un utente ritenuto pericoloso. Meta cambia anche il responsabile per gli affari globali, non più il liberaldemocratico britannico Nick Klegg, ma il repubblicano americano Joel Kaplan, già consigliere di George W. Bush. Inoltre la squadra per la moderazione dei contenuti sarà trasferita dalla California al Texas, lontano dalle peggiori influenze dei media tradizionali e dei gruppi di pressione (progressisti, ndr).

In particolare il fondatore di Facebook ha ammesso che i fact checkers sono risultati «troppo politicamente orientati e hanno contribuito a distruggere più fiducia di quanta non ne abbiano creata, soprattutto negli Stati Uniti».

Le riforme di Zuckerberg sono state accolte da un coro di critiche da parte della stampa internazionale. E anche in Italia, dove è soprattutto Open, il quotidiano di Enrico Mentana, consulente di Facebook per il fact checking, a denunciare una possibile deriva verso il linguaggio di odio su immigrazione e gender. Né poteva essere diversamente: dal 2016, da quando le elezioni negli Usa erano state vinte da Donald Trump, i media tradizionali avevano attribuito la colpa soprattutto ai social network, colpevoli di “diffondere la disinformazione e la misinformazione” senza alcun controllo degli “editori responsabili”. La stretta era arrivata nel 2019, con una pressione senza precedenti sulle aziende proprietarie dei nuovi media. Onore al vero, Zuckerberg aveva provato a difendere la libertà di espressione, opponendosi a ogni forma di censura, già allora. In un discorso tenuto alla Georgetown University, aveva infatti dichiarato: «Oggi, in tutti gli schieramenti, sembra che ci siano sempre più persone che danno la priorità all'ottenimento dei risultati politici che desiderano piuttosto che assicurarsi che tutti possano essere ascoltati». E concludeva: «Credo che dobbiamo continuare a difendere la libertà di espressione».

Infine anche Zuckerberg aveva dovuto cedere, anche nel corso dell’amministrazione Trump, per colpa soprattutto della pandemia di Covid-19. Quel mix di pressioni delle autorità americane e minacce di boicottaggio degli sponsor indusse anche Zuckerberg a introdurre la sua polizia del pensiero, inasprendo le regole del controllo dei contenuti.

E cosa è successo, nella pratica? Che anche su Facebook e negli altri social network di Meta, i contenuti sono stati censurati se erano difformi alle tesi ufficiali. Esattamente come già facevano gli “editori responsabili”, ma senza neppure avere la stessa responsabilità di un editore: un social network, infatti, non è un giornale, ma è una bacheca virtuale dove chiunque può appendere qualcosa e si prende la responsabilità di quel che sta mostrando. Limitare la libertà di espressione, senza la responsabilità dell’editore, è stata dunque una doppia aggressione arbitraria, per chiunque non avesse le idee “giuste”. Soprattutto perché non vengono solo segnalate e represse notizie false, ma anche la “misinformazione”, cioè il contesto mancante o la notizia data in modo “tendenzioso”. Si tratta, fuori di metafora, dell’opinione dei giornalisti che fanno fact checking contro quella dei giornalisti autori degli articoli. Anche La Nuova Bussola Quotidiana ha subito l’effetto della censura dei fact checkers, il caso più esplicito è stato quello di un articolo di Ermes Dovico sul traffico dei feti abortiti, contestato da Open non perché falso, ma per “contesto mancante”.

Significativa la testimonianza su The Free Press di Margi Conklin, ex direttrice dell’edizione domenicale del New York Post. Aveva pubblicato un articolo dell’antropologo Steven Mosher (che è anche una nostra firma), uno dei primi che ipotizzavano che l’origine del Covid-19 fosse da ricercarsi nell’Istituto di Virologia di Wuhan e non nel mercato a pochi chilometri dalla sua sede. Ecco cosa è successo: «Sullo schermo avevo un data tracker che mostrava il nostro traffico web e vedevo la linea verde del nostro articolo salire e salire. Poi all'improvviso, senza motivo, la linea verde è scesa come un sasso. Nessuno leggeva o condivideva il pezzo. Era come se non fosse mai esistito. Vedendo il traffico della storia precipitare, sono rimasta sbalordita. Ho pensato: “Com'è possibile che sia successo? Come fa una storia che migliaia di persone leggono e condividono a scomparire all'improvviso? Più tardi, il redattore digitale del Post mi ha dato la risposta: il team di fact-checking di Facebook aveva segnalato il pezzo come “false informazioni”». Una censura molto interessata, secondo la stessa Conklin: «Ho scoperto che un “esperto” che ha consigliato a Facebook di censurare il pezzo aveva un grosso conflitto di interessi. La professoressa Danielle E. Anderson aveva regolarmente collaborato con i ricercatori dell'Istituto di virologia di Wuhan».

I fact checkers non sono entità astratte o studiosi incorruttibili dediti al sapere, sono persone con propri interessi e soprattutto proprie idee politiche. Il fact checking è diventato, specialmente dopo le elezioni del 2020, sempre più un’attività politica, per censurare le voci dissenzienti, come avevamo già fatto presente su queste colonne in tempi non sospetti. Quando l’acquisto di Twitter da parte di Elon Musk ha permesso di scoperchiare la politica di censura seguita da quel social network, sono emersi anche alcuni segreti su Facebook. Per esempio: le pressioni che aveva subito ad opera di funzionari della Casa Bianca all’inizio dell’amministrazione Biden, soprattutto da Rob Flaherty (futuro manager della campagna di Kamala Harris). Flaherty, con toni aggressivi e molto spesso volgari, imponeva di censurare utenti e giornali legati all’area conservatrice, minacciando gravi conseguenze per il social network.

Le indagini legali nella causa Murthy contro Missouri, riguardante la “misinformazione” sul Covid-19, hanno rivelato come i dirigenti di Meta si siano piegati alle richieste dei funzionari di Biden di censurare notizie e ricerche mediche non conformiste. La Corte Suprema ha stabilito l'anno scorso che i querelanti non hanno dimostrato di essere stati censurati in risposta diretta alle pressioni del governo, ma il caso ha comunque esposto la collusione tra l'amministrazione Biden e Meta.

La vittoria elettorale di Donald Trump ha sicuramente incentivato Zuckerberg a cambiare politica. Ma ormai il danno provocato è enorme. Secondo una ricerca pubblicata sull’insospettabile Corriere della Sera, il fact checking ha rafforzato la polarizzazione e aumentato il processo di tribalizzazione del pubblico, con gruppi sempre più chiusi nelle loro convinzioni, nelle loro bolle informative. «Eppure, nonostante queste evidenze, milioni di dollari sono stati spesi in soluzioni che chiunque con un minimo di onestà intellettuale avrebbe riconosciuto come fallimentari».

In America stanno liberandosi di questo sistema. Ma in Europa? Il momento della liberazione è ancora lontano. Nell’Ue infatti vige il Digital Services Act che di fatto impone il controllo dei contenuti e la moderazione (leggasi: censura), per legge.



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