Zucchero canta i partigiani, i preti uccisi ringraziano
Il nuovo singolo del cantante si chiama Partigiano reggiano e canta la libertà dei combattenti della Resistenza. Peccato che non ci sia neppure un accenno ai 4.000 morti, alcuni anche sacerdoti, della violenza rossa sul finire della guerra. Una scia di sangue in vista di una rivoluzione comunista. Ma il cantante non ha colpe. La vulgata resistenziale dipinge ancora i partigiani come un argine alla violenza. Per fortuna...
Sicuramente Zucchero non lo sapeva, ma ieri ricorreva il 71esimo anniversario della barbara uccisione del seminarista Rolando Rivi, che è stato torturato e ammazzato a soli 14 anni da due partigiani comunisti sul finire della guerra, reo di essere «il prete di domani». Peccato, perché nel suo nuovo singolo in programmazione proprio in questi giorni di aprile su tutte le radio, ci sarebbe stato bene un accenno ad almeno una (quella più simbolica dato che poi la Chiesa l’ha beatificato in odium fidei?) delle 4.000 persone uccise tra il ’44 e il ’45 durante la guerra civile, altrimenti detta Resistenza.
Il cantante reggiano sta facendo ballare mezza Italia con il suo Partigiano Reggiano, canzone dalla facile presa blues e dal messaggio banalmente consolatorio teso a cantare le gesta dei partigiani come coloro che ci hanno consegnato la libertà dopo il Ventennio fascista e la seconda guerra mondiale: «Canto libero», «amore libero», «un sogno libero….come un partigiano reggiano».
Facile no? Il conformismo storico si impone anche grazie a queste operazioni musical-culturali. Tanto a che serve conoscere davvero come sono andati i fatti? L’operazione di Zucchero è davvero furba e protetta dalla vulgata resistenziale, che per 70 anni ci ha trasmesso la falsa idea che dobbiamo la libertà grazie ai partigiani e non agli americani. E siccome a Reggio Emilia i partigiani sono stati davvero tanti e sono stati celebrati in tutti i modi dalle istituzioni e dalla storiografia resistenziale, occupando anche tutti i gangli della vita politica ed economica, che cosa c’è di più facile che una canzone per celebrare le gesta a 71 anni da quei fatti?
Verrebbe da dire che Sugar Fornaciari non abbia fatto un grande sforzo, d’altra parte che cosa si pretende da una canzone? Eppure anche le canzoni sono un riflesso della cultura dominante. E anche nel video si strizza l’occhio al partigiano come liberatore da un mondo oppresso e cattivo.
Ambientazione tarantiniana e western dove vige il clima plumbeo della schiavitù e dell’odio. Ah…se solo ci fosse un partigiano reggiano, lui si che ci darebbe la vera libertà, sembra dire il messaggio della canzone. Peccato che le cose non siano andate proprio così. L’ha notato anche Camillo Langone nei giorni scorsi, quando ha dedicato una “preghiera” su Foglio proprio al seminarista beato del quale Zucchero pare proprio non accorgersi nella sua canzone. E oltre a lui a tutti i sacerdoti reggiani uccisi dai partigiani comunisti perché ostacolo alla penetrazione del comunismo nell’Italia finalmente liberata. Solo a Reggio furono nove, altrettanti a Bologna e Modena per un totale in tutt’Italia, come s’incaricò di documentare lo storico Giorgio Pisanò, di 98 preti uccisi con la scusa della Liberazione.
E’ questo il canto libero cantato da Zucchero? Sicuramente no, però la sua canzone risente di un clima ancora vigente nelle zone del cosiddetto Triangolo della morte (le province di Reggio, Ferrara e Bologna) dove più spietata e violenta fu l’attività dei partigiani delle formazioni garibaldine che, con la scusa della liberazione dal nazifascismo, ne approfittavano per esecuzioni sommarie, vendette ed uccisioni di italiani che col regime o non avevano a che fare o erano stati fascisti come tutti. Ma comunque non erano comunisti e pertanto andavano fatti fuori.
Ma evidentemente Zucchero non ha colpe. E’ il clima che ha respirato fino ad oggi a fargli sognare un mondo libero di questo genere. Prova ne è che proprio nei giorni scorsi, in occasione del convegno degli istituti storici resistenziali, Massimo Storchi, uno storico dell’Istoreco Reggio Emilia, che della storia dei partigiani è il custode, abbia detto che i partigiani sono stati un argine alla violenza di quegli anni.
4.000 morti, precisamente 3.976 esecuzioni, nelle sole province di Ferrara, Bologna, Modena e Reggio Emilia, devono essere un argine sufficiente. Figuriamoci se non ci fossero stati, forse avremmo 4.000 morti in meno sul conto complessivo della tragedia della seconda guerra mondiale.
«La nostra provincia vide stragi compiute dai fascisti, dai tedeschi, vide bombardamenti alleati e stragi partigiane. Le stragi partigiane vennero sempre compiute da formazioni comuniste militarmente inquadrate e politicamente legate al Partito comunista. Non si tratta di guerriglieri sbandati o che agiscono fuori dai comandi», gli ha fatto eco lo storico Luca Tadolini, che in una canzone di Zucchero non potrebbe mai entrare perché considerato troppo di destra e revisionista. Ma tant’è. Per continuare a tenere viva la vulgata resistenziale del partigiano sempre buono e dei compagni che eventualmente potrebbero aver al massimo sbagliato, non servono queste scomode riflessioni. Basta una canzone.
Intanto però il tempo passa e la vulgata epica che alimenta canzoni come quella di Zucchero deve essere tenuta viva nei secoli. Anche se oggi di partigiani ancora in vita, a 71 anni da quei fatti, ce ne sono davvero pochi. Lo sanno bene all’Anpi di Reggio Emilia, l’associazione che riunisce i combattenti di quella stagione. Il consiglio ha dovuto procedere al cambio del presidente dopo il decennio di guida di Giacomo Notari: è stato scelto per la prima volta un presidente che non ha fatto il partigiano, ma è figlio di partigiani. Si tratta di Ermete Fiaccadori, reggiano molto conosciuto per essere stato anche presidente della Reggiana. Uomo del partito e che fino allo scorso anno era anche tesoriere dello stesso Pd. Insomma: verrebbe da chiedersi che senso ha oggi un’associazione, finanziata anche dalle istituzioni pubbliche, di reduci combattenti che non ha più al suo interno dei partigiani, ma solo figli o nipoti di…
Forse serve solo a tenere vivo il mito costruito dai padri, con uomini fidati del partitone rosso, perché la cassaforte della memoria nella Chiesa resistenziale deve avere sempre gli stessi ideali. Non sia mai che qualcuno non si metta a cantare la storia di un prete ammazzato.