Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
STORIA

William Buckley, il demiurgo dei conservatori

Inventò National Review e con esso plasmò un ambiente umano ricchissimo. Era un cattolico tutto d’un pezzo. Aveva cioè dubbi e si faceva domande, e questo perché amava Gesù e la sua Chiesa con libertà somma, sapendo bene dove stanno
di casa le risposte certe.

Cultura 03_03_2012
William F. Buckley jr. (1925-2008)

 

«Kennedy si lamenta continuamente che noi stiamo tentando di diffondere il messaggio comunista in tutta l’America latina. Che si lamenti pure. Diffondere la rivoluzione è affar nostro». Così Fidel Castro arringa i compagni nel thriller di William Frank Buckley jr. Caccia alla mangusta (trad. it., Sonzogno, Milano 1988) dove la CIA cerca di far fuori il líder maximo alla vigilia dell’attentato che invece ucciderà JFK.

Caccia alla mangusta è un’opera di fantasia, certo; eppure Buckley qualcosina delle mosse della CIA la sapeva per davvero. Per molti versi Blackford Oakes, il protagonista dei suoi gialli (scontato il riferimento allo 007 di Ian Fleming, anche se qui l’agente è americano), interpreta Buckley stesso: sciccherie, Ivy League e qualche scrupolo morale quando è l’ora di premere il grilletto. Ma su quel melange di fiction e di verità storiche, di cui si compongono giocoforza i polizieschi buckleyani, la precedenza logica e cronologica l’ha proprio il rapporto di amorosi sensi con l’Agenzia, quella vera. Senza di essa, Buckley non sarebbe infatti mai stato Buckley; negli Stati Uniti non ci sarebbe mai stato il movimento conservatore; alla Casa Bianca si sarebbero seduti altri presidenti; insomma, il mondo sarebbe stato diverso. Buckley è allora la prova provata del complottone dei servizi segreti? Qualcuno lo ha pensato e pure scritto, ma ci si è guadagnato solo il Nobel del fantasy (che per l'appunto non esiste).

Buckley è infatti sempre stato troppo originale, libero, istrionicamente indomabile e talora persino stizzoso per agire da semplice figurante o far da fantoccio. E poi ha sempre avuto più classe. Mettiamola così: ebbe una idea geniale; la trasformò in un progetto serio quando a qualche cocktail incontrò le persone giuste che avevano la forza pratica di fargliela realizzare; se ne servì con una eleganza che ha fatto invidia a molti; e nel mezzo ci si è pure divertito. La CIA? Sia lode, se uno come Buckley ha saputo aggiogarla ad maiora.

Di Buckley il 27 febbraio sono ricorsi quattro anni da quando fu trovato, 82enne, stroncato da un colpo al cuore sul pavimento della sua casa di Stamford, in Connecticut, dove da qualche anno si era oramai  ritirato. Non certo a vita privata, ma a riflettere su quella sua esistenza lunga, e ricca, e perché no pure felice, apparecchiandosi alla morte. Paura no, interrogativi sì. Sapeva a menadito, perché tutti i conservatori old-style lo sapevano a menadito, quella frase che Platone mette in bocca a Socrate, «Una vita non esaminata non è degna di essere vissuta», e lui di cose da esaminare ne aveva tante.

Nel 1997 aveva pubblicato Nearer, My God to Thee: An Autobiography of Faith (Doubleday, New York) chiedendosi profondamente di Dio, di quel Dio cristiano e cattolico che amava in modo profondo e maschio, anche guascone ma sempre devoto. Chiedersi di Dio, della morte e pure del dopo è infatti lecitissimo se si è credenti della stoffa di Buckley, cioè cattolici "da rito antico", "Catechismo di san Pio X" e interesse per la mistica italiana Maria Valtorta (1897-1961). Era del resto venuto su così, Buckley, rampollo di quelle gang altolocate e un po’ puzzosottoilnasiste che a New York un tempo c’erano e che sono state anche fucina di cattolici tutti d’un pezzo, finiti poi a ingrossare le fila del mondo conservatore. Lì Buckley nacque nel 1925.

Ricordo distintamente quando, qualche anno prima dell’uscita in libreria di Nearer, My God to Thee, Russell Kirk (1918-1994), il decano dei conservatori, ricevette da Buckley - come la ricevettero alcuni altri spiriti magni di quel mondo - una richiesta di proferire qualche pensiero forte su Dio da rimuginare e macerare in quel suo libro di molto dopo, faticoso, accidentato, che egli andava lentamente costruendo. La fede granitica di Buckley riposava certamente sulla dottrina della Chiesa dei cattolici e però questa egli un dì l’apostrofò «madre sì, maestra no», facendo pure un po’ di confusione fra Papa, clero e teologi, al tempo del post-Concilio aggressivamente sbalestrato. A tratti fu interlocutoria anche la sua fede, magari persino dubbiosa, ma dov’è lo scandalo? La vertigine sublime del fascino di Dio che tutto abbraccia si palpa sempre in ogni cosa che Buckley ha scritto, e detto, e fatto, persino negli svarioni e negli errori, che sono pure stati tanti e grandi, proprio come tanti e grandi sono stati suoi nemici e i suoi critici che spesso avevano più ragione di lui ma altrettanto frequentemente carità pochina.

 

COME CATONE IL CENSORE

Né Buckley stesso, quando volle, ci andò leggero. Fu lui che estrasse arbitrariamente il cartellino rosso per estromettere dal "movimento" quei filoni del conservatorismo che non gli andavano a genio o che non gli andavano più giù: gli oggettivisti arci-individualisti della sessuomane Ayn Rand (1905-1982), i libertarian rigidi di Murray N. Rothbard (1926-1995), i complottisti della John Birch Society e un po’ pure gli alfieri più integerrimi del “tradizionalismo”, lungo i cui confini Buckley bordeggiò costantemente mai ritraendosi interamente e sempre però stando a distanza. I suoi detrattori non gli hanno comunque perdonato soprattutto di aver aperto le braccia a quegli ex trotzkysti spostatisi a destra che negli anni 1970 cominciarono a prendere il nome di “neoconservatori”, insomma gli ultimi venuti nel “movimento” i quali, secondo molti, segnavano un cedevolissimo slittamento verso i falsi miti del “big government”, della “great society”, insomma del pensiero sinistro.

Mastro Kirk invece non perdonò a Buckley i suoi thriller, con qualche donnina svestita di troppo e il nominare la regina Elisabetta senza fare la riverenza tre volte. Buckley invece considerava Kirk un maestro. Certo, tutti i conservatori lo facevano e lo fanno anche se di Kirk non hanno mai letto un rigo; ma Buckley di più, forse più sinceramente. Per questo non osò fare mai quello che fece Kirk.

Di Buckley ha scritto perfettamente Lee Edwards unendo il dono della concisione, l’abilità di penetrare uno spirito e la capacità di rievocare una vita-opera immensa. Edwards è uno che ha fatto le battaglie del contro-Sessantotto come anima operativa dei giovani riunitisi e cresciuti attorno a Barry M. Goldwater (1909-1998); quindi ha chiuso gli studi all’Università Cattolica di Washington (dove poi ha pure insegnato) e alla Sorbona; ha biografato Ronald W. Reagan (1911-2004) come promessa ventura quando nessuno sapeva nemmeno chi fosse; e infine ha proseguito diventando uno dei più lucidi raconteur di mondi, ambienti, uomini e think tank della galassia conservatrice. Per lui, alla prestigiosissima The Heritage Foundation di Washington, hanno creato una position che non esiste in alcun altro luogo al mondo, Distinguished Fellow in Conservative Thought. Nel suo brillante William F. Buckley Jr.: The Maker of a Movement (ISI Books, Wilmington [Delaware] 2010) scrive che Buckley «avrebbe potuto essere il playboy del mondo occidentale, ma invece scelse di essere il san Paolo del movimento conservatore americano moderno». Cioè l’apostolo delle genti allo sbando, capace di organizzare un credo.

In The Rise of the Right (William Morrow, New York 1984; 2a ed. riv. National Review, New York 1993), il compianto William A. Rusher (1923-2011), che è stato tra i più stretti collaboratori di Buckley, scrisse che negli States, dopo la Seconda guerra mondiale (1939-1945), un mucchio di gente sapeva bene cosa non voleva, ma altrettanto placidamente ignorava cosa volere. Venne allora Kirk che sdoganò il termine-insulto "conservatore", insegnando agli statunitensi la nobiltà e la dignità dell’essere la provincia nordamericana della koinè anglofona nella civiltà occidentale, e tutto cambiò. Nel 1953, Kirk pubblicò quel The Conservative Mind: from Burke to Santayana che il suo maestro (prima) e amico (dopo) T.S. Eliot (1888-1965) amò così tanto da pubblicarne l’edizione britannica con la Faber & Faber e meritarsi la menzione esplicita nell’ampliamento di quel testo seminale, The Conservative Mind: from Burke to Eliot. A Buckley piacque subito quel gioco di pensiero forte, stretto fra le colonne d’Ercole di due spiriti magni del pensiero occidentale (Burke ed Eliot), entrambi figli del popolo e però aristocratici dentro. La cosa faceva insomma per lui.

Correva l’anno 1955 e Buckley fondò allora National Review con il preciso scopo di conquistare a quella visione del mondo un popolo intero, quello americano. Un titolo tutto sommato anonimo, National Review, che però divenne presto un marchio, d’infamia a sinistra e d’onore a destra. Quel periodico fu da subito tutt’uno con il nome di Buckley, il quale tra i benpensanti, i neogiacobini e gli engagé radical-chic è come dire Sandokan in casa di James Brooke. Il programma fu inequivocabile: mettersi di traverso alla storia - scrisse Buckley nell’editoriale di lancio, con parole divenute famosissime - gridando "Alt!". Era uno splendido reazionario, Buckley, che ha regalato all’America più vero progresso lui di tutto l’esercito dei finti liberali.

Figlio di un facoltoso petroliere, la sua National Review la creò con contatti e qualche denaro (eccoci qua) della CIA. Il resto fu tutta farina del suo sacco, sempre senza compromessi, pagando di tasca propria colpi di genio e colpi di testa. Perché nessun agente segreto avrebbe avuto la certosina pazienza che ebbe Buckley nell’investire giorno dopo giorno per decenni finché, timido, spuntò qualche risultato.

 

IL CENTRO, IL CUORE, IL FULCRO 

Edwards lo definisce il creatore del movimento conservatore, in quanto "maestro fusionista". L’espressione risale a Frank S. Meyer (1909-1972), l’ex comunista che approdò a destra capendo che divisi si perde. Anzi, scava scava, Meyer comprese pure che la sontuosa cultura occidentale, un tempo omogenea, era stata disgregata dai suoi nemici in tante parrocchie sparse che avevano finito per divenire sètte litigiose e impenetrabili. E che quindi occorreva risalire a unità, fra tradizionalisti e libertarian, anticomunisti e “Cold War liberal”, un bella fusione, appunto. Infischiandosene dei veti contrapposti, Buckely mise National Review al servizio di questo progetto, che molti non capirono fino a tardi (e alcuni non l’hanno capito ancora oggi), ma che fu efficacissimo. Dentro National Review Buckley volle assieme Kirk e Meyer, che si detestavano, e poi molti altri, che analogamente si detestavano, ma che lui riuscì a tenere assieme come una vera squadra con un vero coach.

Il "movimento" conservatore si cementò su National Review, crebbe in National Review, si alimentò con National Review. Goldwater nacque lì, Reagan anche, Newt Gingrich pure; la Destra divenne una proposta autentica, matura, credibile e possibile dalle sue pagine; e alla fine urrà anche per i neocon poiché, signori, bisogna pur vincerla la guerra.

Oggi come oggi, a quattro anni dalla dipartita del suo demiurgo, non è affatto ingeneroso dire che senza Buckley National Review non è più quello di una volta. Dalle sue rotative sono passate due o tre generazioni intere, tutte le comparse del mondo conservatore vi hanno firmato almeno una piccola recensione e i protagonisti vi hanno invece depositato migliaia di pagine da antologia. Richard Bookisher, altro buckleyano di ferro, racconta la vicenda con precisione in Right Time, Right Place: Coming of Age with William F. Buckley jr. (Basic Books, New York 2009) e, un bel po’ più a sinistra, lo fece già, pionieristicamente ma non meno bene, nel 1988 John B. Judis in William F. Buckley, Jr.: Patron Saint of the Conservatives (Simon & Schuster, New York). Completa bene il quadro il più recente Buckley: William F. Buckley Jr. and the Rise of American Conservatism di Carl T. Bogus (Bloomsbury Press, New York 2011).

Il conservatorismo americano è stato fusionista fino al midollo, e questo è un gran complimento, proprio grazie alla sagacia di National Review e di quel suo creatore che ha saputo vedere più lungo di chiunque altro. E pensare che il vero ideatore del temine "fusionismo" fu il cognato di Buckley, L. Brent Bozell (1926-1997), per dileggio. Non ci credeva, Bozell, al "fusionismo". Con Buckley aveva fornito al mondo la prima grande e insuperata difesa di un uomo ingiustamente bistratto attraverso il libro, scritto a quattro mani, McCarthy and His Enemies: The Record and Its Meaning (Regnery, Chicago 1954) e poi è stato il ghost-writer del fulminante Il vero conservatore (trad. it., Il Borghese, Roma 1962 di The Conscience of a Conservative, Victor Publishing, Shepardsville, Kentucky 1960] con cui Goldwater gettò nell’arena la propria sfida politica. Bozell aveva cioè fatto parte della "banda" per un po’, ma poi aveva mollato tutto.

Bozell era uno di quelli famosi che sedevano rosario al collo e boina roja carlista sul capo a fare ostruzione alle cliniche dell’aborto americano finendo poi in guardina, e così si sentiva in cuore di dovere andare oltre i conservatori. Con Mustard Seeds: A Conservative Becomes a Catholic (Christendom Press, Front Royal [Virginia] 2001) lasciò una testimonianza indelebile, ma sottrasse ossigeno alla buona battaglia di Buckley e compagni. Peccato.

Era il 1951 quando Buckley ruppe gl’indugi pubblicando God and Man at Yale: The Superstitions of "Academic Freedom" (Regnery, Chicago), un pugno nello stomaco che urlava ai quattro venti come nella sua alma mater - l’Università Yale, appunto - era scandalosamente vietato parlare di cristianesimo e di economia di mercato, che per la Destra americana sono una sorta di endiadi. Da allora il 26enne Buckley non si fermò più. Era quello l’anno in cui fu reclutato dalla CIA, missione di 24 mesi, tra l’altro pure a Città del Messico come agente della Divisione Attività Speciali. God and Man at Yale ebbe l’effetto di una dichiarazione di guerra, quella guerra che per più di mezzo secolo Buckley ha combattuto senza esclusione di colpi.

 

SCRIVERE LIBRI, UNA GARA

Si è sopra citato il suo Caccia alla mangusta. In italiano venne pubblicato un anno appena dopo l’originale, Mongoose R.I.P. (Cumberland House Publishing, Nashville, Tennessee 1987): solerzia inspiegabile, visto che quello resta uno dei rarissimi titoli buckleyani tradotti in italiano, e che nemmeno è un capolavoro. Assolutamente inesplorato nella nostra lingua resta infatti quel massiccio dolomitico che è la strabiliante produzione del fondatore di National Review per elencare la quale ci vuole addirittura un libro intero, William F. Buckley Jr.: A Bibliography (a cura di William F. Meehan III, introduzione di George H. Nash, ISI Books 2002), e tenendo presente che dopo la sua pubblicazione Buckley ha scritto ancora…

Buckley e Kirk facevano a gara a chi scriveva più libri. Ha vinto Buckley perché ha vissuto più di Kirk, arrivando a quasi 50 titoli fra narrativa e saggistica, diari e memorie. Si sono vedute crestomazie dei suoi detti che ancora egli era in vita. Alcuni dei suoi volumi più belli riguardano l’andar per mare in barca, cosa che adorava fare forse solo quanto sciare in Svizzera, con l’amico attore inglese David Niven (1910-1983), in tempi in cui prenotare lo skipass oltre l’Oceano e trasvolare l’Atlantico era ancora un’impresa che i più giudicavano da Umberto Nobile.

Migliaia sono stati i suoi articoli, distribuiti anche per agenzia nell’orbe americano persino tre alla settimana, e i suoi contributi su riviste e giornali disparati. L’antologia postuma Athwart History: Half a Century of Polemics, Animadversions, and Illuminations. A Willam F. Bukley Jr. Omnibus (a cura di Linda Bridges e Roger Kimball, prefazione di George F. Will, Ecounter, New York 2010) è una collana di perle. Proverbiale fu il suo uso magistrale della lingua inglese - che, se il mondo fosse diverso, ci si eserciterebbero gli scolari - pari solo al suo inconfondibile accento snob. In televisione è stato una stella, mattatore incontrastato delle 1429 puntate di Firing Line: in quell’impareggiabile talk show, trasmesso dal 1966 al 1999, passava dal gossip alla teologia senza battere quel suo ciglio da gran signore della comunicazione ma facendo sempre palpitare i cuori.

Buckley ha avuto nove tra fratelli e sorelle, nel 1950 sposò Patrica Aldeyen Austin "Pat" Taylor (1926-2007), da cui ebbe un solo figlio, Christopher Taylor, nato nel 1952, e tra jazz e Johan Sebastian Bach fu un pianista provetto. Nel 1965 si candidò a sindaco di New York per il Partito Conservatore, una forza politica locale; perse miseramente, ma ce la si racconta ancora che sembra l’Iliade. Diede della "checca isterica" in tivù a Gore Vidal, ma si pentì; fumava come un turco, e si pentì pure di quello; beveva volentieri un po' di quello buono, e qui già si pentì meno.

Fu delegato americano alle Nazioni Unite, ma non se ne ricorda nessuno; e quando Reagan vinse la presidenza, nel 1980, Buckley gli fece sapere subito che non avrebbe accettato incarico alcuno nell’Amministrazione. Entrò nella dirigenza di Amnesty International, ma nel 1978 se ne andò perché quelli erano contro la pena di morte. Nel 1991 George W. Bush jr. gli conferì la Medaglia Presidenziale della Libertà e la festa per il mezzo secolo di National Review sembrò l’incoronazione di un re.

Indossava camicie e cravatte sempre impeccabili e i pullover girocollo erano immancabili; la scriminatura nei capelli faceva un po' Rodolfo Valentino, il suo modo di aggrottare la fronte era un cliché e il suo sorriso pastoso conquistava sempre. Ho conversato con lui una volta e anni dopo ho capito perfettamente quel che intende Edwards quando di lui scrive: «Onorava suo padre, amava Nostra Signora e crollò quando sua moglie, Pat, morì prima di lui. Considerava il comunismo come il grande nemico degli Stati Uniti e dell’Occidente, un nemico che doveva essere sconfitto e non accomodato. Un giorno riuscì però a vedere questo suo obiettivo finalmente realizzato». I suoi amici e i suoi collaboratori testimoniano che era convinto di andare in Paradiso. Ora, dicono che a pensar così finisce che in Paradiso uno non ci va; ma come negare che quella di Buckley sia sempre stata una vita in contromano?