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EDITORIALE

Voto di genere, un contagio pericoloso

Non solo Bologna, anche la Regione Sicilia ha approvato una legge elettorale che impone le "quote rosa" nelle preferenze. Un provvedimento ideologico che crea nuove discriminazioni.

Editoriali 22_04_2013
Elezioni

Nel suo ottimo articolo intitolato “Voto di genere, l’ultima follia”, pubblicato su La Nuova BQ il 17 aprile scorso, Rino Cammilleri denuncia il fatto che alle prossime amministrative bolognesi gli elettori potranno esprimere due preferenze purché di sesso diverso, pena l’annullamento della seconda di esse. Cammilleri attribuisce l’iniziativa al particolare zelo progressista che caratterizza il “Laboratorio Bologna”. Occorre precisare, purtroppo, che l’estemporanea pensata partorita a Palazzo d’Accursio non è un’espressione originale del politically correct all’emiliana.

L’introduzione delle cosiddette “quote rosa” nelle preferenze di voto rappresenta – ahimè – già un’espressa disposizione normativa anche nella legislazione regionale siciliana. Si tratta della Legge 10 aprile 2013, n. 8, recante «norme in materia di rappresentanza e doppia preferenza di genere», pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Regione Sicilia n.61 del 12 aprile 2013. L’art.1 di quella legge, infatti, ha così modificato il terzo comma dell’art.38 del Testo unico delle leggi per l’elezione dei consigli comunali nella Regione siciliana: «L’elettore può manifestare sino ad un massimo di due preferenze esclusivamente per i candidati della lista da lui votata. Nel caso di espressione di due preferenze, una deve riguardare un candidato di genere maschile e l’altra un candidato di genere femminile del della stessa lista, pena la nullità della seconda preferenza».

Ora, se nessun rilievo può essere mosso circa la legittima potestà legislativa regionale in materia – lo consente, infatti, la stessa Costituzione –, qualche osservazione può invece essere fatta circa il merito della decisione di introdurre “quote rosa” nelle preferenze di voto.

Innanzitutto appare errato pensare di combattere forme di discriminazione di genere attraverso la definizione di quote della presenza femminile in settori significativi delle società, tra cui quelli istituzionali. Non è utilizzando il sistema delle cosiddette “riserve indiane” fissate per legge – peraltro poco edificanti per la stessa dignità femminile – che si può realisticamente pensare di migliorare la condizione della donna nel nostro Paese. Questo può, semmai, rappresentare un comodo alibi per mettere a posto la coscienza di qualche politicante che ama fare propaganda sulla pelle delle donne, giocando al politicamente corretto.
Una premialità di genere non ancorata a criteri meritocratici, infatti, oltre ad apparire umiliante, finisce per rappresentare la magra consolazione per l’esistenza di forme discriminatorie che non si intendono altrimenti combattere. Si dovrebbe, invece, raggiungere l’obiettivo di una reale ed effettiva parità dei sessi senza ricorrere alle scorciatoie della legge e dei provvedimenti giudiziari.

Il secondo aspetto che mette conto di essere evidenziato in questa materia, è l’esigenza di neutralità della legge che è rivolta a tutti i cittadini a prescindere da una serie di differenze, tra cui quella di genere. Nel nostro ordinamento giuridico vige, infatti, il principio di uguaglianza espressamente sancito dall’art.3 della Costituzione, il quale recita testualmente: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Il sesso, quindi, è soltanto uno dei vari criteri che devono essere presi in considerazione al fine di evitare forme ingiuste di discriminazione. Questo significa che nel momento in cui si dovesse decidere di intervenire dal punto di vista legislativo attraverso l’individuazione di “quote protette” occorrerebbe farlo per tutte le categorie contemplate dall’art.3 della Costituzione. Pena, la violazione del principio di uguaglianza. Come poter giustificare, infatti, la mancata creazione di quote riservate a cittadini di razza diversa, alle minoranze linguistiche, ai disabili, e via proseguendo? Perché la discriminazione sul genere dovrebbe prevalere rispetto alle altre forme di discriminazione parimenti vietate dall’art.3 della Costituzione?

Anche il concetto di “pari opportunità” esclusivamente legato al genere appare affetto da un vizio d’origine. In realtà i fattori che concorrono a determinare una reale situazione di uguaglianza che consenta a tutti una chance sociale non si limitano al sesso. Riguardano, come abbiamo visto, anche la razza, la lingua, la religione, le opinioni politiche, le condizioni personali e sociali. Non è indifferente, ad esempio, il contesto sociale in cui una persona – uomo o donna che sia – nasce, o le possibilità di istruzione che gli sono concesse, o le condizioni fisiche che possono limitarlo, e così via. Allora perché attraverso l’istituzione delle “quote rosa” alla figlia di Berlusconi (tanto per citare l’uomo più ricco d’Italia), solo per il fatto di appartenere al genere femminile, dovrebbero essere date maggiori chance, anche dal punto di vista della rappresentanza politica, rispetto a Mario Rossi che, nato in una famiglia di operai, è costretto a lavorare al turno notturno di una catena di montaggio? O a Mario Bianchi che, nella sua condizione di disabile, è riuscito a sopravvivere grazie ad una pensione d’invalidità civile e a completare gli studi a costo di enormi sacrifici?

Il fatto è che la pretesa ideologica e astratta di eliminare per legge forme di discriminazione, attraverso la creazione di categorie protette e senza eliminare le cause effettive di quei fenomeni, è inesorabilmente destinata a creare forme peggiori e più odiose di diseguaglianza. E’ l’eterogenesi dei fini che caratterizza sempre ogni tentativo di far prevalere una propaganda ideologica pasticciando col diritto.