«Viva Cristo Re! Viva l'Albania!»
Il regime comunista albanese, nella sua furia distruttiva, lasciò in vita ben pochi sacerdoti. Ora si ricordano i numerosi martiri, a partire dal mons. Vincent Prennushi, morto in un campo di concentramento nel 1949.
La Chiesa albanese ha ricordato i 65 anni dalla morte di Mons. Vincent Prennushi (1885-1949), Arcivescovo di Durazzo, vittima della terribile persecuzione del regime comunista. Già nel 1944, al momento della presa del potere, i cattolici furono considerati gli avversari più pericolosi dal regime di Hoxha che voleva fare dell’Albania “il primo stato ateo del mondo”.
Inizialmente, nel 1945, il regime cercò di costituire una chiesa cattolica acefala separata da Roma, ma l’arcivescovo di Scutari, Mons. Trochi, e Mons. Prennushi rifiutarono in modo netto. Pagarono duramente. Mons. Trochi morì nel 1946 agli arresti domiciliari, Mons. Prennushi subì un lungo calvario. Nel 1947 venne processato dal tribunale comunista che lo accusò di essere “nemico del popolo e agente del Vaticano” e lo condannò a 20 anni di lavori forzati. Ascoltò in piedi la condanna e rispose: «Non ho voluto male a nessuno, ho cercato di fare il bene».
Arishi Pipa (1920-1947), intellettuale albanese poi rifugiato negli USA, ci offre la testimonianza diretta della prova subita da Mons. Prennuschi; lo incontrò in cella, con altri 20 prigionieri nei 50 mq della stanza n°8 del carcere di Durazzo. Il Vescovo, che al momento della condanna aveva 60 anni, gli raccontò il trattamento subito: preso a bastonate, fu legato mani e piedi e appeso ad un palo orizzontale per diversi giorni. Pur soffrendo di cuore venne più volte costretto a salire su di una ripida salita carico di pesanti travi di legno e ad ogni caduta veniva ingiuriato e picchiato. Probabilmente morì il 19 marzo del 1949, dopo due anni dalla condanna, in preda a violentissimi attacchi d’asma e con il cuore sempre più sofferente.
La follia del regime di Hoxha ha lasciato dietro di sé una lunga scia di martiri, al punto che i preti albanesi ancora vivi all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso si potevano contare con le dite delle mani.
Nel 2009 le clarisse di Scutari hanno redatto una Via Crucis intitolata “Sui passi dei martiri del comunismo”. Si ricorda don Giuseppe Marxen (1906-1946), tedesco, inviato in Albania come missionario, condannato e incarcerato perché prete, fu sottoposto ad atroci torture e poi fucilato. Negli ultimi giorni di vita, dopo essersi prodigato con tutti i compagni di cella, diceva: «Sono contento perché muoio ricordato dagli albanesi come sacerdote della fede di Cristo!»
Un'altra stazione di questa terribile Via Crucis ricorda Maria Tuci (1928-1950), giovane aspirante delle Suore Stimmatine che partecipò fin da subito ai gruppi di giovani resistenti al regime. Fu arrestata nel 1949, molto bella d’aspetto si oppose con forza alla violenza che volevano farle subire i carcerieri, per questo subì torture che la resero irriconoscibile. Trasportata in ospedale in gravi condizioni, prima di morire disse all’amica che andò a visitarla: «Si è avverata la parola di Hilmi Seiti (il suo persecutore): Ti ridurrò in uno stato tale che neppure i tuoi familiari ti potranno riconoscere!... Ringrazio Dio perché muoio libera!»
Don Aleksander Siriani (1892-1948) fu arrestato, torturato e infine fucilato. Di grande cultura, aveva la capacità di smontare con parole semplici il materialismo ateo. Un giorno, dopo la sua predica, le persone al servizio del regime lo portarono fuori, vicino ad una croce e con grande rabbia lo criticarono volgarmente e lo minacciarono davanti al popolo. Don Aleksander, con tranquillità di spirito, disse: «Colpite. Sto qui. Do la vita per Cristo! Testimoniare Cristo è onore per me e per voi. Io ho predicato e predicherò solo la fede di Cristo!».
Quello che è accaduto in Albania si comprende bene nella lettera scritta a Pio XII da don Stefano Kurti (1946-1971). «Le file dei martiri si moltiplicano ogni giorno; nelle carceri, torture terribili sono applicate indistintamente a tutti; migliaia di uomini, donne, vecchi e bambini, spogliati di tutto e affamati, vengono deportati nei campi di concentramento, nei luoghi più isolati e malsani, dentro case senza porte né finestre, costretti tutto il giorno a duri lavori per un solo pezzo di pane. (…) Santità, moltissime altre cose resterebbero ancora da dirLe, …Prostrato ai piedi di Vostra Santità, umilmente chiedo la Vostra paterna e apostolica benedizione per me, per tutto il clero, per tutto il popolo, affinché siamo sostenuti nella lotta presente senza abbattimento per la nostra fede».
Questa fede, questo amore per il Papa, per la Chiesa Cattolica, fu lo stesso che animò Mons. Prennuschi quando, nel 1945, di fronte alla richiesta di fondare una chiesa acefala, rispose: «Un petalo non può restare staccato dal fiore al quale appartiene».
Come i Cristeros messicani anche i martiri albanesi morivano gridando “Viva Cristo Re!”, il sangue dei martiri continua a fertilizzare la terra. È così che il fiore cresce e si sviluppa.