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Vittorio Arrigoni nella guerra infinita tra Hamas e al-Qa'ida

L'idea di jihad locale di Hamas cozza con il sogno
di jihad globale di al-Qa'ida e dei salafiti di matrice saudita. Ma a Gaza i secondi possono agire solo se
i primi lo consentono. I pacifisti sbagliano credendo
che Hamas sia oramai estraneo al terrorismo.
- Bahrain, la rivoluzione interrotta

Attualità 15_04_2011
Vittorio Arrigoni


La tragica morte del pacifista e attivista anti-israeliano italiano Vittorio Arrigoni ci ricorda che non tutti i terroristi ultrafondamentalisti islamici la pensano nello stesso modo. Non esiste un fronte unito dove Hamas e al-Qa’ida «sono tutti la stessa cosa». Non è così, e la distinzione - che non manca di ricordare quella all’interno del comunismo fra il «comunismo in un solo Paese» di Iosif Stalin (1878-1953) e la rivoluzione permanente e globale di Lev Trotsky (1879-1940) - è fra jihad locale e jihad globale. Usiamo qui jihad nel senso di «guerra santa» rivolta contro nemici esterni; naturalmente, anche gli ultrafondamentalisti conoscono l’altro significato di jihad nell’islam, come sforzo ascetico per vincere i propri difetti e passioni, ma non è in questo senso che essi stessi utilizzano di solito il termine.

Hamas, ancorché oggi governi Gaza, è un’organizzazione terroristica nel senso che non ripudia, anzi teorizza il ricorso al terrorismo come forma di jihad. Ma si tratta di un terrorismo organizzato, promosso e gestito contro Israele e sul territorio d’Israele. Hamas si è preoccupata raramente di colpire interessi israeliani all’estero; certamente non si è mai impegnato in guerre cosmiche o planetarie fra l’islam e il mondo degli infedeli, fra il Bene e il Male. Per Hamas il problema da risolvere, prima di pensare a scenari globali, è la Palestina: e di questo offre anche una giustificazione teologica, ricordando il ruolo sacro della Palestina e di Gerusalemme nell’islam. La battaglia per la Palestina non è, per Hamas, una fra le tante battaglie che l’islam oggi si trova a combattere, ma è la madre di tutte le battaglie. Finché il problema della Palestina non è risolto, secondo Hamas è inutile e perfino dispersivo utilizzare il terrorismo in funzione di scenari globali.

Hamas è la branca palestinese dei Fratelli Musulmani, la maggiore organizzazione fondamentalista islamica su scala mondiale. La rottura fra il suo progetto di jihad locale e un nuovo modello di jihad globale si consuma con l’emigrazione nel 1976 in Arabia Saudita di un importante intellettuale palestinese e teorico del terrorismo, Abdullah Azzam (1941-1989). Dopo aver preso fisicamente le distanze dalla Palestina, Azzam inizia a rifiutare la tesi di una centralità assoluta e incondizionata della questione palestinese. Per lui, lo scontro è globale e dev’essere descritto, con toni  millenaristi, come la lotta finale fra il Bene e il Male, fra l’islam e la barbarie della miscredenza. Questa lotta globale e cosmica deve approfittare dei punti deboli del nemico, e colpire là dove c’è possibilità di vittoria. Così, dal 1979, Azzam alterna l’attività accademica con quella di guerrigliero in Afghanistan perché ritiene che sulle montagne afghane, non in Palestina, ci sia la possibilità immediata di vincere una battaglia.

Osama bin Laden è un allievo di Azzam all’Università Re Abdul Aziz in Arabia Saudita: lo segue in Afghanistan, e insieme fondano al-Qa’ida, «la Base», all’origine soltanto una rete per mantenere in contatto i volontari internazionali che avevano combattuto contro i russi in Afghanistan. Da Azzam, bin Laden deriva l’idea di un jihad globale e non più soltanto locale. Paradossalmente, dal palestinese Azzam bin Laden apprende pure, fino all’11 settembre 2001, un relativo disinteresse per la questione della Palestina. Nella stessa retorica di bin Laden, la Palestina è certamente citata, ma gioca un ruolo secondario fino all’11 settembre  e alla sua immediata preparazione. Soltanto dopo l’11 settembre i riferimenti alla Palestina si fanno più insistenti, perché bin Laden si rende conto che solo agitando la bandiera palestinese può reclutare militanti in un mondo islamico che non sempre capisce e apprezza le sue strategie.

Ma, anche dopo l’11 settembre, Hamas rifiuta i tentativi di bin Laden di inserirlo nella sua rete internazionale. Il movimento ha un numero tale di candidati palestinesi alle operazioni di terrorismo suicida da non avere alcun bisogno di «martiri» che arrivino dall’estero. Nel 2006, però, Hamas vince le elezioni in Palestina, e dal 2006 governa Gaza, mentre i rivali laici di al-Fatah controllano la Cisgiordania. Com’è avvenuto in tante altre occasioni, un movimento terroristico «di lotta» diventa anche «di governo» e comincia a ragionare in modo parzialmente diverso dal passato, cercando di farsi accettare dalla diplomazia internazionale e avviando contatti almeno con l’Europa - secondo alcuni, in gran segreto anche con gli Stati Uniti e perfino con Israele. Non abbandona veramente gli attacchi terroristici, ma li persegue a intermittenza.

Questo relativo «imborghesimento» di Hamas, diventato partito non solo di lotta terroristica ma anche di governo, apre spazi a forze più radicali. A Gaza l’islam di matrice egiziana dei Fratelli Musulmani è certamente maggioritario. Ma si è diffuso negli ultimi decenni anche un islam «salafita», espressione ambigua e contestata da diversi specialisti che designa un modello tradizionalista che ha il suo tipo nella dottrina wahhabita dell’Arabia Saudita, molto più puritano nei costumi e occhiuto nella repressione di fenomeni come la vendita di alcolici e la prostituzione. Non tutti i salafiti sono terroristi, e l’Arabia Saudita ha represso duramente al-Qa’ida, che da parte sua considera il governo saudita il suo primo nemico. Ma l’ideologia di Bin Laden nasce su una base salafita, cui aggiunge però le dottrine del suo maestro Azzam sul jihad globale condotto attraverso il terrorismo, tanto che la sua dottrina è definita «salafita-jihadista» per distinguerla da quella «salafita-tradizionalista» del governo saudita. Al-Qa’ida dunque differisce due volte da Hamas: perché guarda al jihad globale anziché a quello locale, e perché il suo retroterra islamico, salafita, è molto più puritano e tradizionale rispetto a quello dei Fratelli Musulmani di cui Hamas è la filiale palestinese, e guarda come modello non all’islam tradizionale egiziano ma a quello saudita.

Al-Qa’ida ha aperto un suo ufficio palestinese subito dopo l’11 settembre, agli inizi del 2002, ma questo ha avuto scarso successo fino a quando nel 2006 Hamas ha vinto le elezioni, ha cominciato a governare e ha potuto essere accusata di avere perso il fervore terroristico originario. Hamas significa appunto «fervore», pur essendo insieme acronimo di Harakat al-Muqawama al-Islamiyya («Movimento di resistenza islamico»). Tuttavia non esiste a Gaza oggi un’unica organizzazione salafita-jihadista controllata da al-Qa’ida. C’è una costellazione di gruppi che hanno abbandonato Hamas accusandolo di essersi «imborghesito», nelle cui divisioni s’intrecciano con l’ideologia questioni di denaro, di leadership e perfino familiari. Fino al 2009 uno dei gruppi salafiti-jihadisti più importanti a Gaza era Jund Ansar Allah («Soldati del Partito di Dio»), che ha però attraversato una «linea rossa» progettando attentati contro i dirigenti di Hamas. La repressione è stata durissima e l’11 agosto 2009 la polizia di Hamas ha fatto irruzione in una moschea dove i membri del movimento erano radunati uccidendone ventuno, fra cui i due principali leader, e ferendone cento. In seguito a questi avvenimenti l’altro principale gruppo salafita-jihadista, Jaysh al-Islam («Esercito dell’Islam») – secondo molti esecutore materiale, d’intesa con Hamas, del rapimento del militare israeliano Gilad Shalit, tuttora tenuto in ostaggio, nel 2006 – ha adottato un profilo più basso e collabora tra alti e bassi con Hamas, pur non avendo interrotto i contatti con al-Qa’ida.

Dopo lo smantellamento di Jund Ansar Allah oltre a Jaysh al-Islam e a una costellazione di gruppuscoli che hanno in media una decina di membri ciascuno rimangono a Gaza tre gruppi salafiti-jihadisti: Jaysh al-Umma («Esercito della Nazione»), Tawhid wa al-Jihad («Monoteismo e Jihad»), il movimento del terrorista internazionale Hisham Al-Saidni, noto anche come Abu Walid Al-Magdisi, che tramite il suo braccio armato Brigata Mohammed bin Moslama sembrerebbe responsabile della morte di Arrigoni, e Ansar al-Sunna («Sostenitori della Sunna», cioè dell’insegnamento dell’islam nella sua declinazione sunnita). Che cosa sono, esattamente, questi gruppi? Sono al-Qa’ida? Si può dire che sono in contatto con al-Qa’ida - qualunque cosa sia al-Qa’ida oggi - il cui ufficio di coordinamento a Gaza non è in grado però di dirigerli e certamente non li ha creati. È anche evidente che, fino a quando non organizzano attentati contro Hamas, i gruppi salafiti-jihadisti vivono e operano a Gaza con il permesso di Hamas, che in qualche modo profitta delle loro attività. Infatti li manipola e li usa per un certo lavoro sporco contro Israele, da cui poi - quando è scoperto - può prendere le distanze affermando che «non siamo stati noi ma i nostri nemici di al-Qa’ida».

Da una parte, non si deve considerare la divergenza fra Hamas e i gruppi salafiti-jihadisti puramente fittizia e cosmetica. Le differenze fra le strategie del jihad locale di Hamas e il jihad globale di al-Qa’ida e dei salafiti-jihadisti, e fra lo stile fondamentalista islamico di matrice egiziana dei Fratelli Musulmani - dunque di Hamas - e quello tradizionalista di matrice saudita del salafismo non sono solo di facciata. Come emerge dalla sanguinosa repressione di Jund Ansar Allah nel 2009, queste divergenze sono così reali da provocare qualche volta parecchi morti. Ma dall’altra parte occorre sempre rendersi conto che Gaza è un piccolo territorio di 360 chilometri quadrati e che i gruppi salafiti-jihadisti si riuniscono, tengono contatti con al-Qa’ida, lanciano razzi su Israele e pianificano attentati anti-israeliani solo finché la polizia di Hamas lo tollera e lo permette. Più in generale, e da un punto di vista culturale, i gruppi salafiti-jihadisti trovano reclute perché si muovono su un terreno preparato dalla retorica anti-israeliana di Hamas - separata dal pragmatismo di cui alcuni dirigenti dell’organizzazione palestinese sanno poi dare prova quanto serve - e dall’islamizzazione forzata in senso fondamentalista della vita civile di Gaza a partire dal 2007.

Qui sta anche l’errore di organizzazioni come il gruppo di Arrigoni, International Solidarity Movement. Si tratta di nemici d’Israele «senza se e senza ma» che prendono per buone le dichiarazioni di Hamas secondo cui non è (più) un movimento terrorista e non ha assolutamente niente a che fare con i salafiti-jihadisti, affermazioni che come si è visto sono in buona parte false. Fidandosene, si corrono gravi rischi, e anche le lacrime di Hamas sul destino di Arrigoni, che di Hamas era un amico sincero, sono un po’ lacrime di coccodrillo. Il doveroso cordoglio per la morte dell’attivista italiano non può dunque essere disgiunto da una riflessione più ampia.