Vita e libertà, 90 anni di cinema di Clint Eastwood
Per fortuna non è un coccodrillo quello che scriviamo oggi su Clint Eastwood, regista e attore di prima grandezza, un caso unico nel panorama hollywoodiano. Oggi, infatti, compie 90 anni, è vivo e lotta insieme a noi. E' un americano vecchio stampo che resiste, con le armi in pugno, alle correnti della società liquida contemporanea.
Per fortuna non è un coccodrillo quello che scriviamo oggi su Clint Eastwood, regista e attore di prima grandezza, un caso unico nel panorama hollywoodiano. Oggi, infatti, compie 90 anni, è vivo e lotta insieme a noi.
I più attenti appassionati di cinema di guerra lo ricorderanno per le prime comparsate in alcuni classici come Duello nell’Atlantico (1957) e La squadriglia Lafayette (1958). I cultori dello spaghetti western e il grande pubblico mondiale lo hanno scoperto con Per un pugno di dollari (1964), film nichilista diretto da Sergio Leone. La scelta è caduta su Eastwood che dimostrò di essere un bravissimo giocoliere con la pistola. Da quel provino la sua carriera non si è più arrestata. Film di guerra, film western, film polizieschi (l’ispettore Callaghan è entrato nella leggenda) lo hanno fatto amare in tutto il mondo, ma snobbare dai critici. Solo molto più tardi, negli anni Novanta, gli spaghetti western sono diventati un genere di culto. Anche le sue prime prove di regista, con film come Assassinio sull’Eiger, Il texano dagli occhi di ghiaccio o il tecno-thriller Firefox (film culto della Guerra Fredda, apprezzato anche da Reagan), per non parlare dell’ironico (ma umanissimo) Gunny, sull’addestratore dei marines più sboccato della storia del cinema, hanno contribuito a relegarlo fra i cineasti del cinema d’azione per il grande pubblico, considerato di serie B dai critici e dai palati fini. È dunque con grande e felice sorpresa che questo ruvido vecchio cowboy e soldato dell’America d’altri tempi ha sfoderato doti artistiche che nessuno si aspettava, all’alba dei suoi settant’anni. Ha infatti prodotto e diretto un capolavoro dietro l’altro in tutti gli anni 2000, film che hanno lacerato gli animi, diviso la critica, costretto ogni spettatore a interrogarsi sui principi su cui è basata la nostra vita nella società contemporanea. La critica lo ha apprezzato e premiato con l'Oscar solo per Million Dollar Baby, unicamente perché la storia tragica della promessa di boxe femminile Margaret Fitzgerald si chiude con la sua eutanasia. Quindi è stato apprezzato, strumentalmente, da una Hollywood favorevole al fine vita. Ma, da allora in avanti, il vecchio Callaghan ha preso sonoramente a schiaffi tutto l'establishment hollywodiano e le sue certezze liberal.
Ciò che rende unico Eastwood negli anni 2000 è proprio questo suo radicamento nell’America degli anni ’50, una civiltà, emersa vincitrice dalla grande crisi e dalla Seconda Guerra Mondiale, che oggi si vorrebbe cancellare, ma che resiste armi in pugno contro le nuove tendenze della società liquida. È l’America di Gran Torino, con un protagonista tutto d’un pezzo, operaio, veterano della Guerra di Corea, che non molla casa sua anche se il quartiere si è completamente trasformato in una zona abitata da immigrati asiatici. Clint avrebbe potuto dirigere il solito stucchevole pamphlet contro il razzismo, invece ci ha donato un film sobrio in cui il protagonista trasforma la comunità che lo circonda donando la sua stessa vita, riaffermando quei valori che non sono solo quelli dell’americano del passato (il lavoro, la proprietà privata, la dignità, la libertà), ma sono universali. Resistendo alla gelata, un unico individuo fa rifiorire il deserto in tutto il vicinato.
Gran Torino si inserisce bene nel filone di film sui nuovi eroi: non hanno poteri speciali, non sono neanche troppo simpatici, vogliono solo vivere in pace, ma salvano vite. Come il cecchino Chris Kyle in American Sniper: occorre veramente un grande regista per far amare dal pubblico un cecchino (solitamente il più infame dei ruoli in ogni film di guerra), per di più un cecchino che nella prima azione rappresentata dalla pellicola uccide una donna e un bambino (armati dai jihadisti, ma pur sempre una donna e un bambino). Eppure Kyle è un eroe: lotta per salvare le vite dei compagni d’arme ed evitare stragi peggiori. Come gli insegna il padre, gli uomini possono essere pecore, lupi o cani da pastore: l’eroe rientra sempre nella terza categoria, difende le pecore dall’attacco dei lupi. Ogni colpo mancato, sono altre vite distrutte dai lupi (jihadisti). Eroe senza macchia è anche Sully, interpretato con realismo e dignità da un grande Tom Hanks: è il pilota, reale, che è riuscito nel miracolo di far ammarare sul fiume Hudson il volo Us Airways 1549, nel gennaio 2009, salvando 155 passeggeri e membri dell’equipaggio. Il film è costruito attorno all’inchiesta su quel gesto apparentemente folle, ma lucidamente calcolato, per giungere alla conclusione che si è trattato della scelta migliore e dell’unica in grado di salvare vite. Meno riuscito, per recitazione e sceneggiatura, ma anche Ore 15:17, attacco al treno è la storia dei tre eroi, militari in licenza, che hanno salvato i passeggeri del treno Thalys Bruxelles-Parigi del 21 agosto 2015 dall’attacco di un terrorista jihadista. Anche in questo caso, la biografia di questi eroi per caso, dall’infanzia fino all’attentato, risolve il dubbio sul ruolo dei soldati: sono protettori, cani da pastore che difendono il gregge.
Il cinema di Eastwood, non è solo fatto di eroi che salvano vite, ma anche di resistenti che si battono per la libertà. E di vittime del sopruso di Stato o dei violenti che se ne servono. In Mystic River, dei tre bambini che ricevono un ordine insensato da “poliziotti” in borghese, l’unico che obbedisce è quello che finisce nella trappola della banda di pedofili e resta rovinato a vita; gli altri due che osano ribellarsi sono invece destinati a due opposte carriere: uno nella malavita e l’altro nella polizia. Obbedire agli ordini senza discutere e affidarsi ciecamente alle istituzioni è pericoloso, come dimostra anche l’ultimo capolavoro Richard Jewell, uscito alla fine del 2019, moderna storia della Colonna Infame, in cui una zelante guardia giurata diventa eroe per tre giorni per aver sventato un attentato alle Olimpiadi di Atlanta, ma dal quarto giorno resta vittima di una montatura mediatica e giudiziaria che lo accusa di esser lui l’attentatore. Richard Jewell ama le istituzioni, si fida e vuol collaborare, ma solo un aggressivo avvocato lo mette in guardia e lo tira fuori dalle grinfie di quelle stesse istituzioni che lo stavano rovinando. In Changeling, la mamma interpretata da Angelina Jolie, che si vede riconsegnare dalla polizia un figlio disperso che non è il suo, non si arrende e si batte finché vince la sua personale battaglia contro una forza pubblica corrotta.
In Flags of our Fathers, i veterani protagonisti della foto americana più celebre della Seconda Guerra Mondiale (la bandiera a stelle e strisce issata sul monte Suribachi, dell’isola di Iwo Jima, nel 1945), sono anche vittime di una mostruosa macchina della mistificazione messa in moto da uno Stato in guerra che deve giustificare i suoi ultimi sanguinosi sforzi. Quei soldati sopravvivono, nell’anima e nel corpo, solo ricordando la loro vera lotta per cercare di salvare i loro compagni d’armi, non dandosi pace per i veri eroi: quelli che non ce l’hanno fatta. Il film-gemello, visto dalla parte dei giapponesi, Lettere da Iwo Jima, lungi dal giustificare il punto di vista del Giappone imperiale, narra la lotta per salvare la vita, sia dal nemico, sia dalla furia auto-distruttiva di un’ideologia che pretende il suicidio per salvare l’onore. L’eroe positivo è il generale Kuribayashi, di formazione occidentale: non vuole il sacrificio inutile dei suoi uomini, ma imposta la sua tattica di resistenza ad oltranza sulla preservazione delle vite. L’eroe sconosciuto è l’unico giapponese sopravvissuto, Saigo, fatto prigioniero dagli americani, sfuggito alle pallottole e ai deliranti ordini dei superiori che gli intimavano di suicidarsi.
La libertà non è gratis, si difende con la forza ed è tanto facile perderla, ci dice Clint Eastwood in tutte le sue pellicole. Un regista che non si piega mai al conformismo contemporaneo. Come scherza nei suoi dialoghi anti-politically correct di Il corriere, film sulla sua vecchiaia, quasi autobiografico, che doveva essere un addio e che invece era solo un arrivederci.