Clint Eastwood narra l'inesorabile scorrere del tempo
Un corriere della droga lavorò per un decennio per il cartello di Sinaloa, sfuggendo a tutti i controlli. Segni particolari: 90 anni di età. A questa storia incredibile si ispira l'ultimo film di Clint Eastwood, The Mule (Il Corriere). Soggetto controverso che viene però usato come espediente narrativo per raccontare qualcosa di molto più importante: lo scorrere inesorabile del tempo.
Un corriere della droga lavorò per un decennio per il cartello di Sinaloa, trasportando negli Usa centinaia di chili di cocaina al mese, sfuggendo a tutti i controlli. Aveva un’arma speciale: l’età. Era un veterano della Seconda Guerra Mondiale, nato nel 1924, quando entrò in attività era già un ultra-ottantenne, incensurato, mai presa una multa, molto prudente nella guida del suo pick-up. Per questo era letteralmente "invisibile" nei controlli di polizia. Il New York Times, nel 2014, gli dedicò un lungo speciale, The Sinaloa Cartel’s 90-Year-Old Drug Mule (Il corriere della droga 90enne del cartello di Sinaloa). La gang di narcotrafficanti più potente del Messico, guidata dal boss El Chapo (arrestato nel 2014), considerava questo anziano di nome Leo Sharp come il suo miglior corriere, una vera leggenda, lo chiamava “Tata”, nonno. Clint Eastwood si è ispirato a questa storia incredibile per dirigere e recitare il suo ultimo film: The Mule (Il Corriere).
La filmografia di Clint Eastwood, eroe di tanti western-spaghetti nichilisti, si è incrociata più e più volte con personaggi cinici, disposti a uccidere per qualche dollaro in più, ma anche con eroi senza macchia e senza paura, veterani e saggi che si sacrificano per il bene comune. Il personaggio del Tata, in questo ultimo lavoro, è un veterano di guerra, con una famiglia distrutta dalle sue continue assenze. Si adatta a un mondo criminale che non gli appartiene, ma restando capace di fare del bene. Usa i soldi guadagnati con il narcotraffico per aiutare la famiglia e la comunità, ottiene il perdono della moglie, riallaccia il rapporto con la figlia. E’ lecito perseguire fini buoni con mezzi malvagi? La risposta di Clint, che non ha mai dimenticato la legge naturale, è cristallina: no. Ma c’è sempre un tempo supplementare per la redenzione. Andando al cinema, con Eastwood, si sta tranquilli: il male non prevarrà, neppure in situazioni, a dir poco, moralmente complesse.
I pignoli noteranno incongruenze nel finale (che non vi riveleremo) e tanti elementi romanzati rispetto alla storia reale, a partire dai nomi, dall’anno di ambientazione (2017 invece che 2011), dai tempi e dai personaggi che ruotano attorno al protagonista. Non va inteso come un film storico, sicuramente, ma come un espediente narrativo scelto da Clint Eastwood, 88 anni, per parlare della vita e dello scorrere inesorabile del tempo. “Il tempo non si può comprare”, dice ad un certo punto del film il Tata. La cui professione e passione, per la quale ha trascurato la famiglia fino a perderla, è la coltivazione di un tipo di gigli la cui fioritura dura un solo giorno, per cui sono “unici”, irripetibili, da godere all’istante. Il simbolo di quel tipo di vita che si riassume con il motto latino carpe diem. Invecchiando, arrivando alla fine della sua esistenza, il nonno capisce che il tempo lo ha perso, invece di averlo coltivato. E di aver perso tutto ciò che c’era di più importante: i rapporti umani, a partire da quelli con la sua famiglia. Di qui la necessità di spendere intensamente il poco tempo rimasto per ricostruire il più possibile, vivendo una sorta di seconda esistenza al fotofinish.
C’è sicuramente più di uno spunto autobiografico, in questa storia. Eastwood, che si era ritratto già in una bara nel finale di Gran Torino, ha invece vissuto questi ultimi dieci anni da regista con un’intensità senza precedenti, sfornando un film all’anno. E in ogni sua opera, dal più acclamato American Sniper al meno apprezzato Attacco al Treno, passando per il sobrio ed eroico Sully, difende e diffonde certezze morali ed esempi di vita vissuta che meritano di sopravvivere ad ogni cambiamento. Anche The Mule è un inno ai valori dell’America, per come l’abbiamo conosciuta finora. E non mancano le stoccate, brevi e feroci, al politicamente corretto, nuova forma di censura. La “parola con la N” (così viene chiamata per evitare di dire e scrivere “negro”) viene pronunciata serenamente dall’anziano protagonista “che non ha mai avuto filtri”, mentre aiuta una famiglia di afro-americani con l'auto in panne. E spiega loro, con le parole e soprattutto con i fatti, che non c’è nulla di disumano nel suo linguaggio. Così come è spassoso e breve l’incontro con un pattuglione di motocicliste lesbiche militanti che lui scambia per corpulenti bikers maschi. Spietata la critica allo smart phone, fonte di distrazione e illusione di onniscienza (“senza Internet non sapete più fare nulla?”). Eastwood non ha perso il suo umorismo, un’ironia rude, da vecchio pioniere che sfotte le debolezze della nuova generazione. Ma soprattutto non ha perso i suoi valori: prima di tutto un grande senso di libertà e un modo sano, meditato, di ricercare la felicità, senza illusioni e scorciatoie. Sarà anche per questo che nei prossimi Oscar, con tutti i film candidati incentrati su pochi temi legati alla politica progressista di oggi, il vecchio Clint (unico big di Hollywood apertamente schierato con i Repubblicani) non ha ottenuto neppure una sola nomination.