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ELEZIONI USA

Vince Biden, specchietto per le allodole moderate

È chiaro il risultato del Super Tuesday. Hanno votato 14 Stati negli Usa nelle elezioni primarie democratiche. Joe Biden, partito lento, rientra pienamente nella corsa, come candidato di punta. È descritto come il "moderato" contro l'estremista Sanders. Ma su tutti i temi che contano, dalla vita ai "nuovi diritti" Biden non è meno estremista  

Esteri 05_03_2020
Bernie Sanders e Joe Biden

Il risultato del Super Tuesday, quando il 3 marzo hanno votato Alabama, Arkansas, California, Colorado, Maine, Massachusetts, Minnesota, North Carolina, Oklahoma, Tennessee, Texas, Utah, Vermont e Samoa Statunitensi (più i Democratici all’estero, che hanno iniziato a votare e che continueranno a farlo fino al 10 marzo) per assegnare 1.357 dei 3.979 delegati in palio, ovvero più di due terzi dei 1991 necessari per ottenere la nomination presidenziale del Partito Democratico alla Convention nazionale di Milwaukee, nel Wisconsin, dal 13 al 16 luglio, è chiaro. Nella sua oscurità.

Di chiaro c’è che Joe Biden rientra prepotentemente in corsa dopo essere rimasto al palo per quattro tornate (Iowa, New Hampshire, Nevada, South Carolina), che Michael Bloomberg ed Elizabeth Warren vanno a ingrossare il parterre delle “nuove” speranze con un gran futuro dietro le spalle assieme a una pletora di stelline (su tutte Pete Buttigieg) che si sono (per ora?) rivelate solo meteore, e che i giochi non sono per nulla fatti. Certo, non sono pochi gli Stati il cui numero di delegati ancora da assegnare è a tre cifre, ma è del tutto possibile, se non persino probabile, che la corsa sia già ridotta a un duello. Di oscuro vi è tutto il resto. Contro alcune previsioni, infatti, il Super Tuesday, invece che chiuderla, ha aperto la partita.

La differenza, probabilmente, la faranno i famosi «superdelegati», quelli che quattro anni fa incoronarono Hillary Clinton a dispetto di Bernie Sanders. Quest’anno sono 771 (sarebbero 775, ma gli otto di loro eletti all’estero contano la metà ciascuno) ed esprimeranno il 16% dei 4750 voti validi alla Convention, che però significa quasi il 39% dei voti utili a varcare la soglia che conferisce la nomination. Più che sufficienti, cioè, per fare ancora la differenza nel caso in cui Biden e Sanders arrivassero a Milwaukee con una differenza nel conto dei delegati che può raggiungere fino la non piccola cifra di 770 unità. Stante che i «superdelegati» sono burocrati e personale eletto del partito, l’esercito dei 771 è l’escamotage con cui i Democratici cercano di assicurarsi l’addomesticamento del risultato finale delle proprie primarie. Ovvero, i Democratici sono poco democratici.

Certo, rispetto al 2016 le regole dei «superdelegati» sono cambiate (per l’indignazione seguita allo “scippo” con cui la Clinton si aggiudicò la nomination contro Sanders), ma non poi di molto. I «superdelegati» non voteranno più al primo scrutinio della Convention, a meno che il vincitore non sia già matematicamente deciso dall’esito delle primarie Stato per Stato, ma lo faranno qualora la Convention fosse contesa, allorché tutti i delegati verrebbero svincolati dall’impegno preso nelle primarie. E così i «superdelegati» potrebbero contare molto nell’arrivare a quota 2376 delegati su 4750 utili a decidere il candidato presidente. Tra l’altro la riforma per rendere “più trasparente” il ruolo dei «superdelegati» ne ha aumentato il numero dai 716 che erano quattro anni fa... Certo, sempre che i «superdelegati» votino compattamente.

Qualche strumento per ottenerne la compattezza il partito ce l’ha, ma l’incognita dell’“effetto Sanders” sta tutta lì. La lettura di bocca buona dice che quello in atto è uno scontro fra l’ala estremista di Sanders e l’ala moderata di Biden. Ma è proprio vero? Cioè, che Sanders sia estremista è vero, ma Biden è davvero “moderato”? Sì, Biden non urla, non rotea pugni chiusi in aria, non ha il grugno di Sanders, sorride pure, ma è “moderato” soltanto perché è più furbo nel vendere ghiaccio agli eschimesi?

Prendiamo i princìpi non negoziabili, che sono un esempio Tornasole. Biden di avvita in cerchiobottismi sibillini, ma cosa ci sarebbe di “moderato” in un presidente del Paese più potente del mondo che considerasse la soppressione continua di milioni di vite umane innocenti ancora nel grembo materno come un diritto intoccabile, che si opponesse al divieto di finanziare l’aborto all’estero con i soldi dei propri contribuenti, che non giudicasse le posizioni sull’aborto un discrimine fondamentale nella selezione dei giudici federali, che rifiutasse di estendere ai bimbi non ancora nati la tutela sanitaria, che consentisse ai minorenni di recarsi in Stati più “aperti” per abortire senza il consenso dei genitori, che rifiutasse di notificare i genitori di quei minorenni l’avvenuto aborto fuori porta, che non ritenesse criminale l’eventuale danno arrecato a un bimbo nel ventre materno durante un’altra azione criminale, che permettesse l’aborto nelle basi militari, che sponsorizzasse i contraccettivi per gli adolescenti, che estendesse la ricerca sulle cellule staminali che comporterebbe la soppressione di embrioni umani, che rimuovesse il divieto alla clonazione umana, il tutto dichiarandosi cattolico, aggiungendo che il cattolicesimo lo ha aiutato molto nei momenti più bui dell’esistenza e chiosando con l’accettazione (?) della dottrina della Chiesa Cattolica sull’interruzione volontaria della gravidanza come ha fatto Biden, che pure è favorevole ai presunti “diritti LGBT+”? Certo, un presidente degli Stati Uniti si occuperebbe anche di altro, ma questa carta d’identità è più che sufficiente.

Sanders o Biden, insomma, cosa un Democratico alla Casa Bianca farà sui princìpi non negoziabili (ma anche su quelli negoziabili) lo sanno tutti già sin d’ora. Il 10 marzo, quando voteranno Idaho, Michigan, Mississippi, Missouri, North Dakota e Stato di Washinton assegnando 417 delegati in una volta sola, e sennò il 17 marzo, quando Arizona, Florida, Illinois, Isole Marianne Settentrionali e Ohio metteranno in palio 675 delegati in un solo colpo, i giochi potrebbero di fatto compiersi. Oppure no, e la sfida continuerà: ma non quella inesistente fra “moderati” ed estremisti, solo quella fra chi sarà il miglior traghettatore dell’estremismo di lotta e di governo. Come sempre, alla faccia della democrazia, saranno i burattinai del partito a deciderlo. Intanto, tra il serio e il faceto, è nato il comitato italiano “Sanders for Trump”. Perché se lo sfidante sarà il candidato socialista, portatore di una ideologia sconfitta dalla storia, il presidente in carica vincerà per sempre.