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APPROPRAZIONE INDEBITA

Vietato dire Natale. È l'ultima follia del politicamente corretto

Dalle scuole alle affissioni fino
agli auguri: il termine è scomparso
in nome del politicamente corretto. Eccesso di riguardo per la sensibilità dei non cristiani.

 

La storia è vecchia, e a poco servirebbe lamentarsi della cattiveria dei tempi. Già lo diceva Charles Péguy: i tempi sono sempre stati cattivi. Il nostro, semplicemente, non fa eccezione.

Sembra che espressioni come «Vacanze di Natale», «panettone natalizio» o perfino «Buon Natale» non si debbano più usare. Unica deroga: i film con Boldi, De Sica & co., ultimo baluardo, verrebbe da dire, del cattolicesimo in questa società senza dio.
Ma provate a dirlo in una scuola elementare italiana - e non di quelle di periferia, piene di figli di immigrati di altre religioni, no: parlo delle belle scuole ricche del centro. Provate a proporre di allestire una bella «recita di Natale». Subito spunta questa cosa che non si trova mai da nessun’altra parte: la «sensibilità» di chi appartiene ad altre religioni.

Non si può offendere la sensibilità di chi non la pensa come noi. Il bello è che della sensibilità di norma non importa niente a nessuno, mai, in nessuna occasione. Tranne questa. Ma queste cose succedono in realtà da ben prima del primo flusso migratorio, da ben prima che l’espressione «politically correct» facesse la sua comparsa.
A nessuno, s’intende, viene impedito di credere in ciò che vuole. L’anima non si nega nemmeno ai cani. Il problema è il corpo, non l’anima. Finché l’anima non ha anche un corpo, non può minacciare nessuno.

Gesù Cristo, però, venne nel mondo per mettere in pericolo il mondo, «questo» mondo, e la prima cosa che fece - prima di tutti i miracoli e di tutte le parabole, prima della predicazione e della Passione - fu di avere un corpo, anzi: di «essere» un corpo, quel corpo lì, che fu dapprima allattato da sua madre come tutti i bambini, e che poi tornò, cadavere, tra le braccia della stessa madre, dopo essere stato crocefisso.

Fu quel corpo a mettere in crisi un mondo che di predicatori e divinità ne aveva fin troppi, un mondo tollerante, al quale un dio in più non avrebbe fatto né caldo né freddo, e che anzi per difendere la «sensibilità» dei cristiani sarebbe forse stato anche disposto a difenderli dalla furia un po’ rozza del popolo al quale il Nazareno apparteneva. Con un po’ di diplomazia, forse, Pilato (che non era granché come politico) avrebbe assunto un’altra posizione, i margini c’erano.
Ma questo nuovo dio, com’era diverso dagli altri! Non solo aveva un corpo, ma voleva che la nuova fede avesse anch’essa un corpo: una comunità di persone in carne e ossa, con una propria identità, una propria antropologia, una propria idea del rapporto con il potere, una propria idea dell’educazione dei figli, e così via.

A questo nemmeno i Romani erano preparati. Professare una fede è una cosa, edificare una chiesa su suolo pubblico è un’altra. Ora, il moderno Stato europeo non è molto diverso. Tollera tutti (anche perché non ama nessuno) ma il corpo è soltanto il suo. Sopporta le religioni unicamente in virtù della loro forza, ma appena queste s’indeboliscono comincia a mostrare i muscoli.

Una mia amica, anni fa, faceva catechismo ai bambini di una parrocchia del centro di Milano. In una delle prime lezioni chiese a questi ragazzini sui dieci anni cosa fosse la Pasqua. Nessuno rispose. Chiese allora se sapevano cos’è il Natale. Ci fu un paio di risposte vaghe, timide. Chiese infine che cos’è Halloween, e tutti seppero rispondere con precisione.

Da questo piccolo episodio ho tratto una mia morale, che forse può essere utile al lettore. Alla gente bisogna dare qualcosa. Una vincita alla lotteria, o a un concorso canoro, oppure al gratta-e-vinci. E poi vacanze al mare, ai Tropici, oppure sulla neve. E poi le tradizioni un po’ favolose, qualcosa su cui fantasticare, le fate, gli elfi, Babbo Natale, il Principe Azzurro. Un sano divertimento senza corpo, tutto anima, tutto innocenza allegra e piena di tenerezza («dolcetto o scherzetto!»).

Questo è ciò che piace all’Impero. E non tiratemi in ballo i musulmani o i buddisti, che non c’entrano, anche se c’è sempre qualche babbeo che, fraintendendo il problema, se la prende con la parte sbagliata.
Chiamatelo stato, chiamatelo impero, chiamatelo mercato: è sempre una forma di controllo, di uniformazione, una livella che, a differenza di quella di Totò, interviene prima della morte, affinché siamo tutti cadaveri felici e contenti.

Certo, chi è venuto al mondo per affermare la dignità assoluta di ogni persona, che consiste nel rapporto unico non con la società, lo stato o il mercato, ma con Dio. Dio, che trascende stato e mercato.
E questo è ciò che stato e mercato, molto spesso, non sopportano.

Da Il Giornale del 18 dicembre 2011