L'interno e l'esterno
Perché insistere sul modo di ricevere l'Eucaristia, anziché concentrarsi sulla sostanza? È un'obiezione comune che dimentica la realtà umana: togliendo i segni che esprimono il sacro ben presto non resterà che una vaga idea di Dio e della fede.

Non sarebbe meglio orientare gli sforzi su qualcosa di più sostanziale della modalità di ricevere la Comunione? Gran parte dei cattolici non va a Messa, non si confessa, non conosce i comandamenti, non crede nemmeno che Gesù Cristo sia Dio e l’unico Salvatore degli uomini: che bisogno c’è di accanirsi sulla Comunione sulla mano? Non è forse più importante quello che, di buono e di cattivo, riempie il cuore dell’uomo piuttosto che concentrarsi sui dettagli liturgici?
La domanda è senz’altro legittima; dobbiamo però constatare ch’essa porta alla luce una delle più dolorose dicotomie che caratterizzano i tempi moderni: quella tra interno ed esterno, tra materia e spirito. Osservando in particolare il mondo cattolico, dobbiamo tristemente prendere consapevolezza del fatto che la quasi totalità dei fedeli e dei pastori ha ormai assorbito questa dicotomia. “Il Signore guarda al cuore”, “l’insistenza sulla forma è fariseismo”, “l’importante è pregare, il resto non conta”, etc.: sono tutte espressioni che puntualmente vengono sollevate non appena si mette un po’ più di enfasi sull’ “esteriorità” della fede.
Sgombriamo subito il campo da un possibile fraintendimento: a chi scrive non passa minimamente per la testa di far calare un giudizio morale negativo su quanti preferiscono la Comunione sulla mano ed ancor meno di affermare che ricevere la Comunione in mano sia di per sé un peccato o un sacrilegio. Tutte le riflessioni dei precedenti articoli riguardano la “bontà” o meno della forma oggettiva di tale pratica, il suo reale o fittizio radicamento nella liturgia della Chiesa antica, la consistenza degli argomenti che la supportano. Nient’altro.
Resta però ancora un aspetto da comprendere: la forma esterna gioca un ruolo enorme sulle disposizioni interne. Quello che noi compiamo, la modalità con cui lo compiamo plasmano il nostro mondo interiore: l’ordine con cui teniamo la nostra casa o il nostro ufficio aiuta il nostro ordine interiore; una certa compostezza nei modi forgia una personalità equilibrata; gesti di aiuto e di gentilezza ci dispongono benevolmente nei confronti delle persone. E si potrebbe continuare. Ma non meno vero è il rovescio della medaglia: più viviamo in un ambiente disordinato e sporco e più il nostro animo diventa irrequieto e il nostro parlare scurrile; più siamo smodati e maleducati e più la nostra interiorità si svilisce; più siamo scortesi e irsuti e più cresce in noi l’avversione verso gli altri. L’esterno non è affatto indifferente nei confronti dell’interno; e non solo perché il primo manifesta il secondo, ma anche perché il secondo viene gradualmente forgiato dal primo.
La realtà umana è fatta di materia non meno che di spirito, di corpo non meno che di anima; nel mondo cattolico, un’enfasi unilaterale sull’interiorità, sostenuta in polemica contro un’esteriorità ritenuta di per sé farisaica, ha contribuito a distruggere non solo le forme esterne, ma ha di fatto corroso anche l’interiorità dei cristiani. I quali, sacrificando atti, gesti, segni conformi alla fede cattolica, hanno iniziato a credere per come vivono. Per anni, dietro le etichette di un cristianesimo interiore, di un monachesimo interiore, della spiritualità, si sono sacrificati i segni e i gesti che questa fede esprimono, proteggono, alimentano. E abbiamo dovuto constatare – ma sono ancora troppo pochi a rendersene conto – che questa “interiorità” unilaterale ha finito per svuotare le Chiese, allontanare i cristiani dai sacramenti, erodere la fede, sia dei singoli come delle società.
Che ciò dovesse verificarsi era per certi versi inevitabile. Perché per noi le cose iniziano ad esistere grazie ai cinque sensi: nihil est in intelléctu quod prius non fúerit in sensu – nell’intelletto non vi è nulla che non sia prima stato nei sensi, afferma con verità la scolastica. Se dunque si tolgono le “incarnazioni del sacro”, ossia quei segni materiali che meglio lo esprimono e che si offrono ai nostri sensi, ben presto all’uomo, di Dio e delle realtà della fede, non rimarrà che una vaga idea.
L’Eucaristia, che è il sacramento della presenza dell’Umanità santa di Cristo (e della sua divinità) sotto le specie sensibili del pane e del vino, è la realtà più colpita dallo “spiritualismo”, sia nel Sacramento che nel sacrificio eucaristico. Quanto meno sono presenti i segni che esprimono che lì è il Verbo incarnato, che siede alla destra della Maestà, ad essere sostanzialmente presente, tanto più la fede nella sua presenza si affievolisce. E se questi segni non corrispondono al mistero creduto e adorato, anche la fede inesorabilmente finisce per deviare.
Torniamo ora alla Comunione sulla mano. L’assenza di elementi che marcano l’adorazione verso questo mirabile Sacramento hanno finito per confondere la fede delle persone che o credono che lì vi sia solo un simbolo di Cristo oppure trattano Dio con una “familiarità” che fa perdere di vista che Colui che si sta ricevendo è il Dio tre volte santo, di fronte al quale adórant Dominatiónes, trémunt Potestátes. In particolare, l’utilizzo della mano per prendere l’Ostia santa e portarla alla bocca imita il gesto del pasto comune, erodendo così la fondamentale distinzione tra sacro e profano, la quale – checché ne dicano certi liturgisti – è il cuore della giusta esperienza di Dio. La peculiarità del sacro, che ci fa fare esperienza di colui che è il Santo, sta proprio nell’esperire sensibilmente la separazione da ciò che è comune, profano; quando questa separazione viene meno, Dio smette di essere Dio, non chiaramente in se stesso, ma per noi.
La Comunione sulla lingua enfatizza chiaramente che non si sta ricevendo un pane comune, proprio nella modalità così diversa di ricevere questo Pane consacrato. Il segno esterno rafforza la fede interna, proprio nel suo inginocchiarsi davanti a Dio e riceverlo in una modalità diversa da quella del pane comune. Questo elemento era presente, sebbene in modo meno incisivo, anche nella forma antica della Comunione sul palmo: la Comunione veniva assunta direttamente sulla bocca, dopo un inchino profondo. La Comunione in mano, invece, cancella oggettivamente gli elementi di questa separazione dal gesto comune del prendere cibo.
«Non ci sia in mezzo a te nessun dio straniero, e non adorare un dio estraneo. Io sono il Signore, il Dio tuo, che ti fece risalire dal paese d'Egitto; apri la tua bocca, e io la riempirò» (Sal 81, 9-10). Questo gesto di aprire la bocca perché Dio la riempia è l’atteggiamento fondamentale dell’uomo di fronte al vero Dio; mentre gli idoli sono opera delle mani dell’uomo (cf. Sal 114, 4), dove la mano indica proprio ciò che l’operosità dell’uomo è in grado di realizzare, il vero Dio richiede quella primaria passività di cui abbia parlato nell’articolo precedente: aprire la bocca per ricevere il pane della Parola di Dio e del suo Corpo e del suo Sangue è il segno di questa consapevolezza di dover ricevere tutto da Dio, abbandonandosi alla sua azione redentrice.