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Vescovi africani: la gente paga le guerre con fame e sangue

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Le conferenze episcopali di numerosi Paesi dell'Africa lanciano l'allarme sulla perenne instabilità legata a colpi di Stato e conflitti, con pesanti ricadute sulla popolazione.

Esteri 11_08_2023

Il Niger è uno dei Paesi più poveri del mondo. Più di quattro milioni di persone, quasi un abitante su sette, dipendono per vivere dagli aiuti umanitari d’emergenza offerti da Nazioni Unite, Unione Europea, Stati Uniti, Francia e altri Paesi occidentali dai quali inoltre il governo nigerino riceve aiuti allo sviluppo per un ammontare di circa due miliardi di dollari all’anno.

Il 26 luglio i militari hanno deposto il presidente Mohamed Bazoum. L’Ecowas, la potente organizzazione economica che raggruppa 15 Paesi dell’Africa occidentale tra cui il Niger, ha reagito imponendo delle sanzioni e minaccia di intervenire militarmente contro i golpisti. Il Mali e il Burkina Faso, due Stati confinanti anch’essi in mano a giunte militari, hanno dichiarato che considereranno atto di guerra nei loro confronti ogni aggressione al Niger. Contro l’eventualità di uno scontro che coinvolgerebbe diversi Stati, consapevoli delle sue conseguenze devastanti, si è pronunciata con fermezza la  Conferenza Episcopale di Burkina Faso-Niger: «come non essere preoccupati – afferma un comunicato diffuso il 4 agosto e firmato dal presidente della Conferenza, monsignor Laurent Dabiré – quando lo spettro della guerra appare nelle soluzioni prospettate per uscire dalla crisi, facendo pensare a una possibile seconda Libia, anche se le conseguenze disastrose della destabilizzazione di quel Paese continuano a far soffrire terribilmente la gente del Sahel. È per questo che  non crediamo affatto in una soluzione di forza alla quale diciamo decisamente no». 

Anche la Conferenza Episcopale della Nigeria ha espresso la sua contrarietà con una dichiarazione del suo Presidente, Monsignor Lucius Iwejuru Ugorji, arcivescovo di Owerri: «chiediamo al Presidente Bola Ahmed Tinubu di dissuadere i capi di Stato dell'Ecowas dalla tentazione di entrare in guerra contro i golpisti. Li preghiamo di fermare l'imminente spargimento di sangue che seguirà l'intervento militare. Abbiamo sprecato molte vite umane in Africa. Abbiamo anche sprecato preziose vite umane in Nigeria e non possiamo continuare in questo modo orribile. Mentre diciamo no al colpo di Stato diciamo anche no alla guerra, per qualsiasi motivo».

In Africa non solo la Libia è l’esempio delle sofferenze delle popolazioni che vivono in Paesi senza pace e ne patiscono le conseguenze. Dal Sudan arriva in questi giorni la richiesta a non distogliere l’attenzione, a causa della nuova crisi, dall’emergenza umanitaria causata dal conflitto scoppiato lo scorso aprile tra i due generali al vertice della giunta militare al potere dal 2021: Abdel Fattah al-Burhan, capo dello Stato e dell’esercito governativo, e Mohamed Hamdan Dagalo, suo vice e capo delle Forze di supporto rapido, un organismo paramilitare forte di 100mila unità. Come in Niger, anche prima dello scoppio delle ostilità, fame e malnutrizione avevano raggiunto livelli record.

Adesso si calcola che circa metà della popolazione, oltre 24 milioni di persone, abbia bisogno di aiuti umanitari e circa nove milioni soffrano di gravi carenze alimentari. I combattimenti concentrati nella capitale Khartoum, nella sua città gemella Omdurman e nel Darfur hanno causato 2,5 milioni di profughi. Migliaia sono le vittime civili, ogni giorno muore qualcuno. Molti sono uccisi dai combattenti, più ancora muoiono per mancanza di cure: bambini abbandonati negli orfanotrofi, ammalati lasciati in ospedali chiusi a causa dei bombardamenti, senza medicinali né terapie, i macchinari che li tenevano in vita distrutti o inutilizzabili per mancanza di corrente. Sono così tanti che adesso si cercano persone disposte a sotterrare nelle fosse comuni scavate a Khartoum e Omdurman i cadaveri che si accumulano per le strade.

La Conferenza episcopale del Sudan continua a lanciare appelli, a denunciare le violazioni dei diritti umani. Lo ha fatto anche di recente: «troppe vite vanno perdute, e i sopravvissuti patiscono per i saccheggi, le violenze sessuali, gli ospedali distrutti, la mancanza di acqua, cibo, corrente elettrica e dei sevizi di base». Incuranti, gli avversari continuano a combattere.

Un altro pressante appello alla pace arriva dalla Conferenza episcopale dell'Etiopia. Con un messaggio diffuso il 7 agosto, primo giorno di due settimane, fino al 22 agosto, di digiuno dell'Assunzione di Maria Santissima, i vescovi cattolici chiedono che si fermino gli scontri  tra la milizia dell’etnia Amhara e le Forze governative e che si risolvano i problemi attraverso il dialogo. Il conflitto è stato innescato dalla decisione del governo, annunciata a metà aprile, di smantellare le unità paramilitari degli Stati regionali. Gli Amhara non intendono obbedire.

Il 4 agosto il governo, visto l’intensificarsi dei combattimenti, ha dichiarato lo stato di emergenza per sei mesi. Nel messaggio dei Vescovi si legge: «Molti sono stati uccisi nella recente guerra nel nord del nostro Paese. Molti sono rimasti feriti, hanno subito danni economici, sociali e psicologici. Siamo stati tutti molto contenti che la pace sia stata raggiunta attraverso il dialogo. Tuttavia, siamo addolorati nell'apprendere che un'altra guerra è iniziata prima ancora di assaporarne i risultati». Il riferimento è al conflitto tra i Tigrini e il governo, iniziato nell’autunno del 2020 e durato due anni, che ha causato centinaia di migliaia di morti e una crisi umanitaria di proporzioni apocalittiche.

Più di 20 milioni di persone attualmente hanno ancora bisogno di assistenza alimentare nel Tigré e in altre regioni del Paese, in seguito al conflitto e a causa di un protratto periodo di siccità. Ma il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, che assisteva quasi sei milioni di persone, ha ripreso solo l’8 agosto la distribuzione di cibo dopo averla sospesa per tre mesi nel Tigré e per due in tutto il Paese a causa dei continui furti di enormi quantità di aiuti. Se i furti non si ripeteranno, il programma ripartirà a piano ritmo e verrà esteso alle regioni Amhara, Afar e Somali.

I Vescovi cattolici invitano il governo a intensificare gli sforzi per trovare una soluzione pacifica al conflitto: «riteniamo che la volontà politica del governo sia molto importante affinché il dialogo avvenga», scrivono. Sarebbe un segno positivo se almeno si preoccupasse di mettere fine al furto degli aiuti al quale sicuramente prendono parte tanti funzionari di governo.



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