Verso i 100 anni della Quas primas: già si affilano le armi
L’11 dicembre 2025 cade il centenario dell’enciclica con cui Pio XI fissò la dottrina della Regalità sociale di Cristo. C'è un mondo cattolico in fermento.
Nel 2025 cadrà il centesimo anniversario dell’enciclica Quas primas (11 dicembre 1925) con cui Pio XI stabilì la dottrina della Regalità sociale di nostro Signore Gesù Cristo e fissava la data della festa liturgica di Cristo Re.
Già ora, con largo anticipo, alcune riviste hanno iniziato a parlare dell’argomento, tra queste la rivista spagnola Verbo, che nel suo attuale fascicolo (n. 625-626 del secondo trimestre 2024) dedica al tema quattro studi. Uno di questi, a firma di Bernard Dumont, si intitola “La secolarizzazione di fronte alla regalità di Cristo” (pp. 519-534). Dopo aver spiegato con competente chiarezza cosa si intenda per secolarizzazione, soffermandosi sulle diverse accezioni che nella storia del pensiero ne sono state date, l’autore arriva ad un punto veramente focale. Nel paragrafo dedicato ad esaminare l’argomento nel Vaticano II, egli cita Paolo VI dal Discorso al Corpo diplomatico dell’8 gennaio 1966: «La Chiesa, così definita in sé e situata in rapporto a ciò che non è, appare con un'altra caratteristica che non sempre è stata resa chiara nei secoli passati: la Chiesa appare del tutto svincolata da ogni interesse temporale. Un lungo lavoro interiore, una presa di coscienza progressiva, in sintonia con l'evolversi delle circostanze storiche, l'hanno portata a concentrarsi sulla sua missione. Oggi la loro indipendenza è totale rispetto alle competizioni di questo mondo, per il loro bene supremo e, possiamo aggiungere, per quello delle sovranità temporali. Vuol dire questo che la Chiesa si ritira nel deserto e abbandona il mondo al suo destino, felice o infelice? Piuttosto il contrario. Essa non si distacca dagli interessi di questo mondo se non per mettersi in grado di penetrare meglio nella società, di mettersi al servizio del bene comune, di offrire a tutti il suo aiuto e i suoi mezzi di salvezza. La Chiesa lo fa oggi – e questa è una caratteristica nuova di questo Concilio, più volte sottolineata – in un modo che in parte contrasta con l’atteggiamento che ha segnato alcune pagine della sua storia».
Da questo passo e soprattutto dalle frasi di Paolo VI che l’autore scrive in corsivo per segnalarne l’importanza, si capisce – scrive Dumont – che «la dichiarazione va molto più in là della natura di una osservazione diplomatica, nella misura in cui manifesta pentimento. Secondo Paolo VI c’è un prima e un poi, e un tempo in cui le cose non erano chiare. Equivale ad una dichiarazione di ritirata. Dei due poteri – Chiesa e Stato – solo uno rimane».
Però, in questo modo, non si dimentica la verità enunciata da Pio XII nel radiomessaggio dell’1 giugno 1941 nel cinquantesimo anniversario della Rerum novarum?: «Dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e s'insinua anche il bene o il male nelle anime, vale a dire, se gli uomini chiamati tutti ad essere vivificati dalla grazia di Cristo, nelle terrene contingenze del corso della vita respirino il sano e vivido alito della verità e della virtù morale o il bacillo morboso e spesso letale dell'errore della depravazione. Dinnanzi a tale considerazione e previsione come potrebbe esser lecito alla Chiesa, madre tanto amorosa e sollecita del bene dei suoi figli, di rimanere indifferente spettatrice dei loro pericoli, tacere o fingere di non vedere e ponderare condizioni sociali che, volutamente o no, rendono ardua o praticamente impossibile una condotta di vita cristiana, conformata ai precetti del Sommo Legislatore?».