Utero in affitto, si difende il reato, si censura la verità
La Raggi annuncia la rimozione dei manifesti contro l’utero in affitto di Generazione Famiglia e Pro Vita. In Italia si è liberi di reclamizzare la maternità surrogata, che è reato, mentre viene punita la difesa della verità e del diritto dei bambini a mamma e papà.
Il diritto costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero viene immediatamente sospeso nel caso in cui si parli di difesa della vita e del diritto del bambino ad non essere oggetto di un mercimonio. La censura sempre più evidente e impunita dei gendarmi politicamente corretto torna a colpire a Roma, dove la sindaca Virginia Raggi ha annunciato la rimozione dei manifesti contro l’utero in affitto, affissi da Generazione Famiglia e Pro Vita Onlus su oltre 40 maxi cartelloni presenti nella capitale.
Il sindaco pentastellato dell’Urbe era già intervenuta nella primavera scorsa, richiedendo la rimozione dei manifesti antiabortisti delle due associazioni aderenti al Family day, ma questa volta la disposizione di oscuramento ha battuto un nuovo record, arrivando nemmeno dopo 24 ore dalla loro esposizione.
La prima a far partire l’ordine del bavaglio è stata la senatrice del Pd Monica Cirinnà, che dopo poche ore ha richiamato il primo cittadino al codice etico sulle affissioni di Roma Capitale. La mano della lobby arcobaleno sulla vicenda non è mistero visto che alcune associazioni lgbt hanno poi ringraziato la senatrice grillina, Alessandra Maiorino, per aver contattato il Campidoglio.
Intanto, Iacopo Coghe, presidente di Generazione famiglia, fa sapere alla Nuova BQ di non aver ricevuto alcuna comunicazione dal Comune e che secondo le informazioni fornite da alcuni consiglieri comunali d’opposizione l’amministrazione capitolina non ha ancora redatto alcun documento per la rimozione dei manifesti.
Resta il fatto che a destare la solita isteria censoria è stato un messaggio che non fa altro che fotografare la barbarie della maternità surrogata. Il manifesto ritrae un bambino molto piccolo con un codice a barre sul petto, che si agita disperato dentro un carrello, spinto da due ragazzi identificati come “genitore 1” e “genitore 2”, e a fianco la scritta: “Due uomini non fanno una madre. #StopUteroinAffitto”.
Insomma non si capisce rispetto a quali basi normative, il codice etico delle affissioni di Roma Capitale possa ritenere offensivo il manifesto. Il leader del Family day, Massimo Gandolfini ha infatti ricordato che “il mercimonio di madri surrogate, di gameti scelti in base al sesso e l’etnia e di bambini strappati al seno materno a poche ore dalla nascita, restano pratiche illegali perseguite dalla legge italiana”.
Coghe e il presidente di Pro Vita, Antonio Brandi, hanno inoltre fatto presente che “in Italia si è liberi di reclamizzare la maternità surrogata come ha fatto Vendola la scorsa settimana a Matrix, pratica vietata dall’art. 12 della legge n. 40 del 2004 e punita come reato con la reclusione fino a due anni e con la multa fino ad un milione di euro, mentre si cancellano le voci di libertà che mirano a rimettere al centro la dignità dei bambini, il loro diritto ad avere una mamma e un papà e la dignità delle donne, usate come incubatrici”.
Nel frattempo solidarietà delle sigle pro family è stata espressa da un vasto fronte di parlamentari di centro destra appartenenti sia alle forze di maggiorana che di opposizione: Pillon, Comencini, Quagliariello, Gasparri, Pagano, Palmieri, Rizzoti e Meloni. Inoltre, il vicepresidente della Camera, Fabio Rampelli, sta valutando un interrogazione parlamentare.
Stavolta però bisogna registrare che quasi nessun esponente dei partiti più progressisti ha voluto spendere parole in difesa della scelta della Raggi. Tutti sanno che l’utero in affitto è una rivendicazione insostenibile anche per i più incalliti sostenitori dei cosiddetti diritti individuali. Una pratica che divide la sinistra, il mondo lgbt e che è osteggiata dalla quasi totalità dei movimenti femministi. Tutto sommato difendere il supermercato dei neonati resta un atto ancora molto impopolare.