USA verso il futuro, UE prigioniera del passato
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Dopo l'attentato a Trump c'è stata una grande accelerazione della politica americana, sia tra i repubblicani che tra i democratici. Al contrario, nella UE la vecchia maggioranza si arrocca sfidando la volontà degli elettori.
Se si guarda al corso che gli avvenimenti della politica stanno prendendo in questi giorni nei due grandi poli dell'Occidente, quello americano e quello europeo, si trae la straniante impressione di due mondi che viaggiano in direzione opposta, o addirittura che non sembrano vivere nella stessa realtà.
Gli Stati Uniti hanno visto, a partire dall'attentato a Donald Trump del 13 luglio scorso, una drammatica accelerazione della loro dialettica politica, da tempo polarizzata dal prepotente ritorno alla ribalta dello stesso Trump e dalla debolezza evidente del presidente Joe Biden. I colpi di fucile esplosi a Butler, Pennsylvania, dal giovane Thomas Mattew Crook – che soltanto per miracolo non hanno ucciso l'ex inquilino della Casa Bianca e candidato del Partito repubblicano – hanno provocato uno choc enorme nel paese, e hanno segnato una vera e propria svolta nella campagna per le prossime presidenziali.
La reazione forte, ma composta e fortemente unitaria, di Trump ha consolidato decisamente la sua figura di leader, e la convention repubblicana di Milwaukee ha segnato non soltanto la sua prevedibile investitura, ma il completamento di una vera e propria rivoluzione nel campo del GOP.
In particolare, la scelta come candidato vicepresidente di J.D. Vance, giovane icona dei “dimenticati” della rust belt deindustrializzata, ha dato il segno del fatto che il tycoon newyorkese ha ormai imposto la cultura politica MAGA – il conservatorismo populista dell'America first – come impronta dominante nel partito, e ha indicato addirittura un possibile suo successore in grado di portare avanti, coerentemente e con personalità, la stessa linea anche dopo di lui. Nel discorso ufficiale di accettazione, Trump ha infine chiuso il cerchio, presentandosi come candidato patriottico in grado di unire il paese e la società intorno a valori condivisi.
Anche nel campo democratico, dopo l'attentato a Trump la storia sta subendo una parallela, repentina accelerazione. La percezione, già prima abbastanza netta, che la declinante figura di Biden apparisse perdente davanti alla arrembante corsa alla rivincita trumpiana e fosse ormai un peso per i Dem, si è trasformata, nell'ultima settimana, in autentico panico per quella che appare come una sconfitta assai probabile, e ha spinto coloro che premevano già per un passo indietro del presidente (Obama e il suo circolo in testa) a stringere i tempi, cercando di costringere Biden ad “abdicare”, e magari promuovere una sorta di primarie “flash” per scavalcare anche la vice presidente Kamala Harris, sostituendola con figure giovani e più credibili legate ai territori.
In ogni caso, quale che siano il quadro e l'esito delle elezioni del prossimo novembre, gli Stati Uniti si avviano a voltare pagina, chiudere una stagione e ridefinire la propria politica interna ed estera secondo una valutazione realistica dei propri interessi nazionali e di potenza. All'interno della quale saranno compresi verosimilmente una accentuazione delle barriere protezionistiche nei confronti della Cina, il tentativo di sfruttare adeguatamente le proprie materie prime per favorire la crescita economica, e - vedremo in che termini - la ricerca di una soluzione di compromesso del conflitto russo-ucraino, con la corrispondente accentuazione della pressione verso gli alleati europei perché contribuiscano maggiormente alle spese per la difesa.
Se, a partire da questo quadro, si sposta lo sguardo sull'altra sponda dell'Atlantico, sembra che il tempo improvvisamente rallenti, e ci si trovi bloccati in un'epoca precedente, in un eterno “giorno della marmotta”.
Le elezioni per il Parlamento europeo tenutesi nello scorso giugno avevano dato un esito inequivocabile: la sconfitta di verdi, liberali centristi e socialisti, e la corrispondente crescita della destra, da quella moderata del Ppe a quelle sovraniste. Cioè la chiara bocciatura, da parte degli elettori, della linea tenuta nei cinque anni precedenti dalla Commissione guidata da Ursula von der Leyen: in particolare la bocciatura dell'irrazionale estremismo ambientalista del “new green deal”, dalle conseguenze rovinose per l'economia del continente; del lassismo filo-immigrazionista; del bellicismo ad oltranza e senza sbocchi rispetto alla guerra russo-ucraina.
Ebbene, dopo settimane di contorte trattative per la attribuzione delle maggiori cariche dell'Unione, in cui era emersa chiaramente la necessità di tener conto in qualche misura del mutamento degli equilibri imposto dal risultato delle consultazioni, i leader di Pse, Renew Europe e Ppe non hanno trovato nulla di meglio che cercare la riconferma; non soltanto arroccandosi nella loro vecchia coalizione, addirittura accentuando ulteriormente a sinistra il suo baricentro, e cercando l'appoggio del gruppo più punito dagli elettori, quello dei verdi, attraverso la riproposizione in forme ancor più radicali di scadenze e obblighi imposti ai cittadini in vista della presunta “decarbonizzazione”. Scelta che denota una irresponsabile, tetragona negazione della realtà, e ancor più un atteggiamento di totale disprezzo verso la volontà degli elettori, verso i loro problemi e i loro assai giustificati malumori.
Dal punto di vista puramente aritmetico e di corto respiro la manovra ha avuto successo: la von der Leyen è stata rieletta a capo della Commissione, con una maggioranza in cui le defezioni interne al gruppo popolare, e il voto contrario dei conservatori di Ecr, sono state compensate dai suffragi degli ambientalisti. Ma dal punto di vista politico l'arroccamento ostinato degli “ursuliani” configura uno scollamento ulteriore delle istituzioni comunitarie dalla realtà di una situazione mondiale in rapida evoluzione, che non tarderà ad esigere e riscuotere prezzi molto salati.
Mentre alla destra dello spettro politico europeo le diverse formazioni e gruppi si vanno ricompattando in una linea di opposizione che può disarticolare il Ppe, e presto si ripercuoterà su molti provvedimenti specifici, la Commissione von der Leyen 2 si troverà nella molto scomoda posizione di proseguire ciecamente in un programma velleitario di ristrutturazione energetica che rende il vecchio Continente quasi del tutto dipendente dalla Cina per materie prime e semilavorati, proprio mentre gli Stati Uniti imporranno agli europei di alzare barriere sempre più alte alle importazioni da Pechino.
E si troverà a insistere nella linea di un sostegno “senza se e senza ma” al governo di Zelensky proprio mentre probabilmente l'amministrazione statunitense correggerà la rotta rispetto al conflitto e ai rapporti con Mosca. Il tutto mentre l'autorità della sua presidente è minata in maniera significativa dagli esiti dei ricorsi giudiziari sulla sua condotta nella gestione della politica dei vaccini contro il Covid, fortemente sospetta di gravi irregolarità e parzialità, come emerso proprio in questi giorni dal pronunciamento della Corte di Giustizia Ue.
La rotta della nave dell'Ue dovrà presto subire robuste correzioni, o il rischio che il suo viaggio somigli a quello del Titanic si farà sempre più concreto.