Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
100 ANNI DI CALVINO / 1

Uno scrittore «mai soddisfatto delle definizioni»

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Il 15 ottobre ricorreranno i cent’anni dalla nascita di Italo Calvino, uno dei più noti scrittori italiani del Novecento. Un intellettuale che voleva «insegnare un modo di guardare» e che la critica letteraria ha spesso imbrigliato, vanamente, in definizioni.

Cultura 17_04_2023

Cent’anni fa, il 15 ottobre 1923, nasceva Italo Calvino, senz’altro uno degli scrittori italiani del Novecento più letti nelle scuole e più venduti nelle librerie. Le novelle sono spesso proposte nelle scuole elementari, la trilogia degli antenati (Il cavaliere inesistente, Il visconte dimezzato o Il barone rampante) e i romanzi dedicati alla Seconda guerra mondiale e alla lotta partigiana (Il sentiero dei nidi di ragno e Ultimo viene il corvo) sono suggeriti alle superiori di primo e di secondo grado.

La sua arte non è certo esaurita in queste opere, perché, oltre a risentire dei dibattiti aperti negli anni Cinquanta e Sessanta (La speculazione edilizia e La nuvola di smog), delle suggestioni dello strutturalismo e della semiologia (Il castello dei destini incrociati) e del fascino delle scienze (Le cosmicomiche, Ti con zero, Palomar), Calvino mostra una ricerca inesausta di esprimere la verità che si intravede o in cui ci si imbatte nella vita. Quel Calvino, che amava molto il Settecento, si sentiva però lontano da Voltaire:

Mi sembra che il racconto filosofico di Voltaire […] abbia pochi rapporti con i miei tentativi letterari. Per Voltaire il personaggio del racconto ha il compito di incarnare un’idea. Per me è quasi il contrario. Quando scrivo vado alla ricerca del senso esatto, profondo di quello che sto raccontando. Naturalmente sono un uomo del mio tempo, ho le mie opinioni, non pretendo di essere una tabula rasa (intervista di Claude Couffon, 1966)

Per Calvino la realtà viene prima delle idee. La realtà esiste prima di noi e dei nostri pensieri. La sua scrittura cerca le parole adatte in uno sforzo titanico di trovare l’espressione che possa descrivere la realtà, al contrario di chi tenta di ingabbiarla nei pensieri, negli schemi, nelle ideologie partorite dalla mente umana. In un’intervista rilasciata nel 1967 a Madeleine Santschi, Calvino afferma:

Io credo che esiste la realtà e che ci sia un rapporto (seppur sempre parziale) tra la realtà e i segni che la rappresentano. […] Il mondo esisteva prima dell’uomo ed esisterà dopo e l’uomo è solo un’occasione che il mondo ha di organizzare alcune informazioni su se stesso.

Nel 1969 Calvino ribadisce il concetto con altre parole: «Il mondo è diverso da come me lo immagino. Cerco di parlare solo di quello di cui mi sono fatto un’opinione chiara». C’è un atteggiamento che Calvino considera fondamentale nel cammino dell’esistenza: «L'unica cosa che vorrei poter insegnare è un modo di guardare, cioè di essere in mezzo al mondo. In fondo la letteratura non può insegnare altro». Così Calvino scrive all'editore francese François Wahl in una lettera dell’1 dicembre 1960. Ancora Calvino confessa:

Scrivo per imparare qualcosa che non so. Non mi riferisco adesso all’arte della scrittura, ma al resto: a un qualche sapere o competenza specifica, oppure a quel sapere più generale che chiamano «esperienza della vita». […] questo posso farlo solo nella pagina scritta, dove spero di catturare almeno qualche traccia d’un sapere o d’una saggezza che nella vita ho sfiorato appena e subito perso.

In un’intervista rilasciata a Claude Couffon nel 1966, pubblicata su Les Lettres françaises, Calvino sottolinea una delle prerogative fondamentali che hanno caratterizzato la sua vita fino a quel momento, ovvero quel suo essere «mai soddisfatto delle definizioni»:

Ho cercato di scoprire quello che c’è realmente sotto le parole delle ideologie. Quando si dice comunista o cattolico, che cosa c’è sotto queste parole? Il modo di procedere […] – il mio – è quello di un uomo che non è mai soddisfatto delle definizioni e che ogni volta cerca di scavare sempre più a fondo.

«Definire» significa chiudere all’interno di confini e di limiti la complessità della realtà. Un’operazione culturale spalanca ad una ricerca e ad una domanda nella consapevolezza che il reale è sempre più complesso della rigida classificazione cui tende la mente umana. Per la stessa ragione Calvino parla con grande fatica, quando rilascia interviste è molto refrattario a rispondere, impiega molto tempo a trovare le parole opportune e quando le trova vorrebbe cambiarle, ben conscio che le parole definiscono, ingabbiano, chiudono nella cerchia di un confine.

Quando scrive, Calvino compie un’operazione molto faticosa: mette su carta una parola, poi la cancella, rimane per molto tempo senza completare l’opera. Il silenzio conta tanto quanto la parola, l’inattività ha lo stesso peso della scrittura. Calvino dirà che è una soddisfazione vedere le proprie opere compiute, un grande sacrificio stenderle. La realizzazione di un’opera è come un parto: talvolta può durare ben oltre i sei mesi, ma anche tanti anni. Il caso più evidente è quello de La giornata di uno scrutatore che venne alla luce addirittura dopo dieci anni dalla progettazione.

Calvino vuole sempre scrivere qualcosa di nuovo, perché il lettore non si possa annoiare. Per questo è alla ricerca di nuovi linguaggi, di innovative modalità espressive, di forme di narrazione ancora inesplorate. Conduce questa ricerca contemporaneamente, lavorando su più testi (alcuni dei quali non saranno mai completati), servendosi materialmente di più tavoli, come si può constatare nelle case in cui abita a Roma e a Parigi.

La critica letteraria ha spesso imbrigliato Calvino in definizioni, gruppi, movimenti, che attraversano la cultura degli anni in cui ha scritto (dagli anni Quaranta agli anni Ottanta). Eppure, Calvino, più di altri, sfugge a qualsiasi ipotesi di catalogazione e di definizione. Nel 1957 Calvino mostra anche la sua irriducibilità a schieramenti, ideologie, posizioni aprioristiche irrevocabili con una decisione inaspettata. Proprio negli anni in cui va di moda l’intellettuale engagé, specialmente di sinistra, sia in Europa (si pensi a Camus o a Sartre) che in Italia (basti citare Moravia), il 7 agosto 1957 Calvino si dimette dal PCI (a cui si è iscritto nel 1945), in seguito ai gravi fatti di Budapest del 1956 e così giustifica la sua presa di posizione:

Cari compagni devo comunicarvi la mia decisione ponderata e dolorosa di dimettermi dal partito […]. Credo che nel momento presente quel particolare tipo di partecipazione alla vita democratica che può dare uno scrittore e un uomo d’opinione non direttamente impegnato nell’attività politica sia più efficace fuori dal Partito che dentro.

Quali sono le radici di questo tentativo costante di non fermarsi mai a quanto gli è stato comunicato e ha appreso, di attraversare la cultura dominante senza fermarsi mai alla presunzione di aver compreso e descritto la realtà?