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INTERVISTA

Universitari per la vita: "Chiediamo la fine della 194"

La fondatrice Chiara Chiessi: «La partecipazione alla Marcia è una testimonianza per ricordare che tutti i nati dopo il '78 sono sopravvissuti alla 194. Scendiamo in piazza per testimoniare l’iniquità di quella legge. Il fatto di vedere che ci sono dei giovani che si spendono per questa causa e credono in qualcosa fa riflettere. Oltre a farci sentire e informare preghiamo, anche se fra noi c'è anche chi non è cattolico».

Vita e bioetica 18_05_2018

Sanno di andare controcorrente, ma sanno anche che la loro battaglia culturale è necessaria per custodire un principio, la sacralità di ogni vita umana dal concepimento al suo termine naturale, che è alla base di ogni diritto e libertà. Parliamo degli "Universitari per la Vita", un gruppo fondato nel 2016 ma attivo dall’anno scorso, che conta oggi una quarantina di studenti sparsi in 12 università, i quali si stanno dando da fare per risvegliare le coscienze intorpidite da decenni di martellamento mediatico e leggi anti-vita, dall’aborto all’eutanasia. Sono voci fuori dal coro della cultura dominante, che stanno cercando di farsi conoscere per radicarsi nel territorio e difendere le vite più indifese. Una necessità quantomai urgente dopo le ultime censure ai danni delle campagne pro-life. Domani saranno presenti alla Marcia per la Vita di Roma, la Nuova BQ ha intervistato la loro fondatrice Chiara Chiessi.

Chiara, da che cosa nasce l’idea degli Universitari per la Vita?
Gli "Universitari per la Vita" sono nati dopo che nel 2016 ho partecipato alla Marcia per la Vita di Washington, dove ho potuto constatare l’entusiasmo che anima tanti giovani nel difendere la vita più indifesa. Passo la maggior parte del mio tempo in università e perciò mi sono detta che era da lì che bisognava partire per fare apostolato tra gli studenti e i miei coetanei. Siamo attivi di fatto dall’anno scorso, quando con un gruppo di amici abbiamo iniziato a fare volantinaggio a Roma Tre; poi si sono formati nuovi gruppi in altre università. La partecipazione alla Marcia è una testimonianza importante per ricordare che tutti noi siamo sopravvissuti alla 194, perché la nostra generazione è nata dopo il 1978. Scendiamo in piazza anzitutto per testimoniare l’iniquità di quella legge.

Che cosa puoi dire della cultura pro-life diffusa tra gli studenti americani? Quali differenze hai notato rispetto alla situazione in Italia?
Prima della Marcia ho partecipato a un convegno degli Students for Life, che sono il principale gruppo di studenti pro-vita negli Stati Uniti. Innanzitutto loro hanno molto più coraggio nel portare avanti le loro idee, non hanno paura o vergogna, invece noi siamo molto meno abituati, ma è normale perché siamo solo agli inizi del nostro percorso. Alla Marcia di Washington per l’80% erano giovani e veramente entusiasti, con tanta passione e convinzione della bontà di quanto stavano facendo. Per loro è del tutto naturale mettere un banchetto all’università e distribuire materiale, da noi non è una cosa scontata. Loro poi fanno molte veglie di preghiera fuori dagli ospedali, sono abituati a questa presenza pubblica.

Eppure non mancano le censure, né lì né qui.
Sì, la censura la stiamo sperimentando anche qui in Italia, università comprese. Come l’anno scorso, quando abbiamo invitato Gianna Jessen [l’attivista americana, oggi quarantunenne, sopravvissuta a un tentativo di aborto salino, ndr] a Roma Tre. Avevamo ottenuto tutti i permessi necessari per un’aula, ma dopo una riunione straordinaria dei docenti ci siamo dovuti spostare in cappellania, con la motivazione che l’aula non era il luogo adatto per una testimonianza del genere: si trattava di una scusa perché a Roma Tre si fanno conferenze di tutti i tipi, ma evidentemente questa dava fastidio. Testimonianze come quella della Jessen hanno un grande impatto, perché vedere con i tuoi occhi, e sentire parlare una persona che non doveva nascere, non può lasciare indifferenti.

La difesa della vita non è un tema caro ai grandi media, quelli che più influenzano la mentalità di giovani e adulti. Come pensate di convincere i vostri coetanei sulla bontà della vostra battaglia culturale?
La cosa più importante è la testimonianza. Il fatto di vedere che ci sono dei giovani che si spendono per una causa come questa e che credono veramente in qualcosa, fa riflettere molto, specie in una società dove ognuno si fa gli affari propri. Cerchiamo di far riflettere sui dati scientifici, per esempio che il cuore batte già a 16 giorni dal concepimento. Mostriamo delle riproduzioni di piccoli feti di 12 settimane, perché vedendo la concretezza del bambino che si va a uccidere le persone iniziano a riflettere, tanto che molti studenti hanno proprio paura di prendere in mano queste riproduzioni di bambini, hanno paura di vedere la verità.

Un po’ come è successo con la rimozione forzata a Roma del manifesto di Pro-Vita che mostrava un bambino in grembo all’undicesima settimana, e poi con la censura della campagna di CitizenGo
Esatto. Noi ci muoviamo pure con i social, postando video di donne che hanno abortito e che testimoniano il dramma psicologico vissuto dopo l’aborto: la sindrome post-abortiva di cui spesso non avevano mai sentito parlare, senza dimenticare che lascia delle ferite nel corpo, perché l’intervento non è una passeggiata. Il bambino è la prima vittima innocente, ma la seconda vittima è la donna. Le donne devono saperlo.

Vi siete mobilitati anche per difendere il diritto alla vita del piccolo Alfie Evans e prima ancora di Charlie Gard. Sono minacciati tanto i non nati quanto i già nati.
Sì, stiamo vivendo una deriva eugenetica davvero folle. Ma oltre a scendere in piazza per farci sentire e informare, è importantissima la preghiera. Oggi più che mai la preghiera è un’arma fondamentale e perciò abbiamo pregato sia a casa sia ai vari Rosari pubblici. Stiamo perdendo la consapevolezza della preziosità della vita, che è intrinseca all’essere umano: un bambino malato, un bambino con la sindrome di Down, un bambino in grembo di tre mesi con una patologia grave, hanno tutti la stessa identica dignità. E invece c’è una cultura mortifera, sempre più diffusa a partire dalla 194, che ci vuol passare il messaggio che ci sono delle vite che valgono di meno, che vanno scartate.

Molti di voi sono cattolici, in che cosa vi aiuta la fede nel portare avanti delle iniziative, che oggi generano spesso le derisioni del mondo?
La fede è fondamentale perché ci dà tanta forza, solo con le forze umane non riusciremmo ad andare avanti ogni giorno avendo il mondo contro. A me ispira molto quello che scrive san Giovanni Paolo II nell’Evangelium Vitae e tutti i messaggi che ha dato ai giovani: lui dice proprio che siamo arrivati a un punto in cui è necessario scendere in piazza per difendere il diritto alla vita, proteggere gli innocenti, denunciare le leggi ingiuste. La fede ti aiuta a considerare la dimensione soprannaturale, a guardare oltre la dimensione umana e pensare sia a difendere i nostri fratelli più piccoli sia al bene delle anime.

Gli "Universitari per la Vita" sono comunque aperti anche a chi non crede.
Sì, ho parlato dello sguardo cattolico e mio personale, ma non nasciamo come gruppo cattolico perché siamo aperti anche a studenti non credenti. Nel nostro gruppo c’è una ragazza non credente che è molto convinta di questa battaglia, è consapevole che non può esistere una società in cui si va a opprimere il più debole: non staccare il ventilatore a un bambino malato, che ne ha bisogno per respirare, è anzitutto un fatto di civiltà. Il valore di una società si vede proprio da come tratta la persona più fragile.

Sarete a Roma alla Marcia per la Vita.
Sì, parteciperemo noi di Roma e ci saranno anche i ragazzi dei gruppi universitari di Bologna, Firenze, Milano e Padova. Speriamo che nuove persone si uniscano a questa battaglia.