Un'altra condanna a morte islamica eseguita sul suolo europeo
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Salwan Momika, attivista iracheno, rifugiato in Svezia, è stato ucciso in casa sua durante una diretta social. Nel 2023 aveva bruciato due copie del Corano, attirandosi le ire di tutto il mondo islamico.
Il 29 gennaio, Salwan Momika è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco, nella tarda serata, nel suo appartamento a Södertälje, nel quartiere di Hovsjö, non lontano da Stoccolma.
Era il giugno del 2023 quando Momika, un iracheno residente in Svezia, bruciava per ben due volte, una copia del Corano. Prima accanto alla moschea di Stoccolma, poi all’esterno dell’ambasciata irachena nel Paese, con la protezione della polizia di Sicurezza - come previsto dalla legge.
Secondo quanto reso noto da SVT, la sera dell’omicidio Momika era in diretta sui social e quindi tutto potrebbe essere stato filmato. Nel frattempo, il portavoce della polizia di Stoccolma ha confermato che cinque persone già sono state arrestate. Secondo la prassi scandinava la polizia si mantiene più che abbottonata: nulla si sa su chi siano i cinque in manette, e nessuno parla degli sviluppi delle indagini, ma una cosa è certa: il caso non sarà trattato come un episodio di criminalità comune.
«Il mio problema non sono i libri degli ebrei, dei cristiani o di altre religioni. Il mio problema è il libro che incoraggia la violenza: il Corano», aveva detto all’epoca del rogo. Un gesto di “protesta” non proibito dalla legge svedese in nome della libertà d’espressione.
Le autorità svedesi ritengono, infatti, che la libertà di espressione può essere preponderante anche sulla distruzione in pubblico di un libro sacro. I musulmani considerano il Corano parola increata di Dio, pertanto, anche il solo poggiare il testo a terra, o rovinarlo deliberatamente, è considerato un atto blasfemo di una gravità inestimabile. E sono tanti i Paesi islamici dove un gesto come quello di Momika può valere la condanna a morte o il carcere a vita.
Il Corano in fiamme in Svezia fece presto il giro del mondo e la condanna fu unanime: dal Consiglio dei diritti umani dell’Onu fino a papa Francesco che, al quotidiano degli Emirati Arabi Uniti, Al-Ittihad, si disse «disgustato». Considerevoli i comunicati stampa sui fatti, tantissimi i commenti e le parole di condanna, certamente imparagonabili rispetto alla quotidiana, in Occidente e fuori, profanazione di cristiani, chiese e tabernacoli, più spesso ignorata.
D’altronde il caos seguito al rogo del Corano non s’è mai sopito dal giugno del 2023. L’opinione pubblica scandinava ha fatto presto a spaccarsi e s’è trovata a fare i conti con l’offesa all’islam. Da una parte una minoranza per cui la Costituzione che non vieta roghi di libri deve essere applicata e chi vive in Svezia deve accettare di essere in una società libera, anche a costo di sentirsi offeso; dall’altra quanti considerano i roghi del Corano ‘provocazioni inutili’ da vietare per legge, perché ‘offendono i musulmani’ e provocano violenza.
La Danimarca, ancora scossa dall’affaire delle vignette su Maometto, all’indomani del rogo del Corano nella vicina Svezia, pensò di reintrodurre la legge sulla blasfemia contro il vilipendio dei testi sacri. Una storica marcia indietro per un reato già abolito. «Non dovremmo cambiare la nostra legislazione perché alcuni regimi dispotici, che non hanno il minimo rispetto nemmeno per i più elementari diritti umani, ci minacciano», scrisse il portavoce del Partito Verde, la danese, Mai Villadsen, sul quotidiano Politiken, il più importante di Copenaghen.
All’indomani di quei Corani distrutti il mondo islamico insorse. Per settimane, fu la notizia più importante in politica estera. Giordania, Marocco Kuwait, Emirati Arabi Uniti richiamarono i loro ambasciatori a Stoccolma. Il Marocco e la Giordania convocarono i diplomatici svedesi a Rabat e Amman per comunicare la loro ferma condanna per l’inaccettabile gesto. L’Iran biasimò il governo svedese per aver consentito che si svolgesse la manifestazione blasfema e annunciò in breve la sospensione della partenza per la Svezia dell’appena designato ambasciatore.
A Baghdad, migliaia di persone, capitanate dall’imam Muqtada al-Sadr, presero d’assalto l’ambasciata svedese e la occuparono. Decine di fatwa piovvero sulla Svezia, su Momika, sull’Occidente tutto. «Quando un cittadino iraniano ha bruciato la bandiera danese e svedese, nonché la Bibbia e la Torah di fronte all’ambasciata israeliana a Copenaghen, elogiando l’ayatollah Khomeini, pochi danesi si sono preoccupati di questo deliberato tentativo di provocare. Nessuno ha minacciato di usare la violenza e il manifestante non è stato arrestato», ragionò sul Time, Jacob Mchangama, avvocato danese, difensore dei diritti umani, ed esperto globale di libertà d’espressione.
Anche l’Arabia Saudita e l’Iran convocarono i rappresentanti delle missioni diplomatiche svedesi nei loro paesi. «Gli occidentali arroganti alla fine impareranno che mancare di rispetto ai valori sacri dei musulmani non rientra nell’ambito della libertà di parola», fu il commento lapidario del presidente turco Erdoğan, che decise di indire una conferenza stampa ad hoc per i fatti in Svezia. Gli fece eco il direttore delle comunicazioni del governo, Fahrettin Altun, «ne abbiamo abbastanza di permettere l’islamofobia e i continui episodi di odio nei confronti della nostra religione da parte di autorità europee, specialmente in Svezia che, se vuole diventare nostra alleata nella Nato, non può tollerare o consentire simili comportamenti da parte di terroristi islamofobici».
Un anno dopo, la Svezia si ritroverà ad aver bisogno del sostegno di Erdoğan per entrare nella Nato. E qualche mese più tardi, c’è stata l’esecuzione in diretta mondiale.
Secondo il premier svedese Ulf Kritstersson l’omicidio di Momika è collegato a «una potenza straniera». Ipotesi per nulla remota se per un omicidio il premier interviene direttamente in conferenza stampa e ne segue personalmente gli sviluppi, «posso garantire che i servizi di sicurezza sono profondamente coinvolti, perché c’è ovviamente il rischio di un collegamento con una potenza straniera».
La città irachena di al-Kufa aveva promesso due milioni di dollari e un corano di due chili d’oro a chi lo avesse ucciso. Secondo il criminologo Aardavan Khoshnood, «solo l’Iran ha i mezzi per una simile operazione». A settembre, le autorità svedesi avevano accusato l’Iran, primo indiziato tra le potenze straniere per via dell’affaire Salman Rushdie, di essere responsabile di circa quindicimila messaggi inviati a persone in Svezia che chiedevano «vendetta per i roghi del libro sacro dell’islam».
Corsi e ricorsi storici direbbe qualcuno. Come per Paty, anche la Svezia assiste inerme all’ingerenza violenta di una potenza straniera che pensa di far valere le sue leggi su quelle occidentali in nome dell’islam. Basta una fatwa e si muore. Decapitati, assassinati in diretta, o accoltellati all’occhio come Rushdie.
Momika avrebbe dovuto ricevere, proprio in queste ore, la sentenza del processo per incitamento d’odio contro gruppo etnico, che lo vedeva imputato. Il tribunale di Stoccolma ha fatto sapere che «non è possibile condannare una persona morta». Così si chiude l’ennesimo caso con l’islam in Europa.