Una strage che giudica anche l'Occidente
La strage compiuta dal regime cinese il 4 giugno del 1989 contro studenti e lavoratori che chiedevano democrazia e libertà resta una spina nel fianco, non solo del governo di Pechino, ma anche di un Occidente che allora adottò una politica morbida nei confronti della Cina, considerando questa fosse la via per una democratizzazione. Invece a 30 anni di distanza, con un governo che sta riportando la Cina all'era di Mao, i Paesi occidentali dovrebbero riconoscere che quella strategia è stata un fallimento.
Il ministro della Difesa cinese, Wei Fenghe, si è stupito nei giorni scorsi, rispondendo a delle domande, che venga ancora messa in discussione la decisione del regime di reprimere le proteste di piazza Tienanmen a Pechino trenta anni fa: «Quell'incidente – ha detto Wei - è stato una turbolenza politica e il governo centrale ha preso misure per fermarla, mettendo in atto una politica corretta». Migliaia e migliaia di studenti e lavoratori per settimane avevano occupato la piazza principale di Pechino chiedendo riforme democratiche, reclamando libertà, finché nella notte tra il 3 e 4 giugno i carri armati liberarono quella piazza provocando una strage le cui dimensioni vere sono ancora sconosciute: diverse centinaia o alcune migliaia furono i giovani massacrati.
«Un incidente», «una turbolenza politica», «il governo ha agito correttamente». Dal punto di vista cinese è ineccepibile: il principale obiettivo di un regime è mantenere il potere e, possibilmente, rafforzarlo. In quella primavera 1989 stava crollando il regime sovietico e la strage di piazza Tienanmen è stato un primo passaggio di una strategia volta ad evitare la stessa fine di Mosca. Dal loro punto di vista questi 30 anni hanno dato ragione ai falchi, anche se rimane sempre vivo l’avvertimento dell’allora segretario del Partito comunista Zhao Ziyang, il “riformista” perdente: in una lettera del 1997 alla leadership del partito, scrisse che «prima o poi, la questione (del pentimento per quella decisione, ndr) andrà risolta» perché «la gente non dimenticherà, non importa quanto tempo ci sarà da aspettare. Sarà meglio risolvere questa vicenda prima e per nostra iniziativa».
Malgrado l’auspicio di Zhao, non è da Pechino che oggi possiamo attenderci una riflessione critica su quanto avvenuto. Quel regime criminale sta conoscendo un’altra stagione di pugno di ferro, pensa di viaggiare con il vento in poppa, non penserebbe certo di compiere un gesto che considererebbero di debolezza.
Ma dall’Occidente sì, ci si aspetterebbe una seria riflessione sul dopo Tienanmen, su come ci si è rapportati con il regime cinese, e quali risultati si è ottenuto. Bisogna allora ricordare che quella strage, che ebbe una eco e un significato paragonabile alle grandi repressioni del regime sovietico, dall’Ungheria 1956 a Praga 1968, arrivò come una doccia gelata su un ottimismo che si era creato dopo il vertice del 1984 che vide Ronald Reagan e Zhao Ziyang uscire mano nella mano dalla Casa Bianca.
Con Deng Xiaoping la Cina aveva da poco iniziato un cammino di riforme economiche che lasciavano sperare anche in una apertura politica, dopo gli anni bui del maoismo e della Rivoluzione culturale (1966-1976). «Lo stupro di Pechino» (come titolò quello che allora era il più importante settimanale asiatico, il Far Eastern Economic Review) sembrava far tornare indietro la storia. Ma dopo l’inevitabile immediato stop alle relazioni con la Cina, prevalse ben presto in Occidente il partito degli affari: per facilitare la transizione verso la democrazia era molto meglio, si disse, mantenere aperto il canale economico e politico premendo allo stesso tempo per il rispetto dei diritti umani. Isolare completamehte la Cina, si argomentava, non farebbe altro che peggiorare la situazione, interna oltre che internazionale.
C’era ovviamente anche chi predicava la linea dura, chi di fronte a quell’esercito che sparava contro giovani inermi, davanti a quei carri armati che travolgevano senza pietà chi chiedeva la libertà, sosteneva che non si poteva tornare al business as usual, cioè continuare a fare affari come se niente fosse; c’era chi sosteneva che solo mettendo i diritti umani al primo posto qualcosa sarebbe potuto cambiare nella Cina. Ma tale posizione non ebbe fortuna, le cancellerie occidentali – per convinzione o per interesse – riaprirono al dialogo con Pechino; del resto chi stava cercando di penetrare nel mercato cinese, non aveva alcuna intenzione di lasciare campo libero ai competitor.
Così per alcuni anni i leader occidentali si presentarono a Pechino tenendo in una mano i contratti da firmare e nell’altra una lista di prigionieri politici o di coscienza di cui chiedere la liberazione. Qualche volta il regime cinese faceva qualche gesto di buona volontà, molto più spesso si indignava per l’ingerenza negli affari interni. Poi, con il passare del tempo la lista dei prigionieri da liberare ha cominciato a rimanere in tasca e si tirava fuori se proprio se ne presentava l’opportunità, tra le varie ed eventuali. Infine, nessuno ricorda neppure quando, a un certo punto di diritti umani non si è parlato neanche più.
Nel frattempo, siamo negli anni ’90, all’ONU si imponeva la questione ambientale, l’allarme riscaldamento globale veniva presentato come l’emergenza più grave del mondo e allora davanti alla Cina l’unica preoccupazione era la richiesta di diminuire le emissioni di anidride carbonica. I diritti umani erano ormai dimenticati, tanto che nessuno ha avuto alcunché da obiettare quando un ministro cinese in fase di negoziazione ha affermato candidamente che la Cina aveva già fatto la sua parte avendo impedito la nascita di 400 milioni di esseri umani (ovviamente con l’aborto e la rigida applicazione della “politica del figlio unico”).
Piazza Tienanmen resta dunque un ricordo sfocato, ma a trenta anni di distanza è doveroso chiedersi se l’approccio del dialogo con la Cina ha funzionato, ovvero se ha garantito un’apertura democratica oltre allo sviluppo economico; se in fatto di diritti umani si sono fatti passi avanti decisivi. La risposta è purtroppo semplice per quanto evidente: no. No, non c’è alcun passo avanti, anzi con l’attuale uomo forte di Pechino, Xi Jinping, si sta tornando ai tempi di Mao quanto a pugno di ferro contro qualsiasi attività non controllata dal partito. Oggi, una manifestazione in piazza Tienanmen neanche avrebbe la possibilità di iniziare.
Dunque, dal punto di vista politico l’approccio “morbido” che hanno avuto i paesi occidentali è completamente fallito se davvero si voleva agevolare una transizione verso la democrazia e il rispetto dei diritti umani. Se mai un giorno la Cina acquisterà la libertà non sarà certo per l’abile strategia di Europa e Stati Uniti. Nel frattempo di pari passo con la crescita tumultuosa dell’economia, il regime cinese si è molto rafforzato militarmente e si è fatto decisamente aggressivo nei confronti dei paesi della regione. Peraltro sono in chiaroscuro anche i risultati economici per gli occidentali vista, ad esempio, la guerra commerciale in corso tra Cina e Stati Uniti, le rigide regole per gli investimenti stranieri in Cina, la concorrenza sleale in diversi campi.
Piuttosto pare invece che sia il “modello cinese” ad aver contaminato i paesi occidentali: la combinazione tra un rigido controllo sociale e uno sviluppo economico pilotato affascina indubbiamente chi detiene il potere. La dittatura del “politicamente corretto” che si sta affermando in Occidente somiglia sinistramente alla Rivoluzione culturale di maoista memoria. Ed è inquietante che i giganti del web come Google, Facebook, Twitter non solo abbiano accettato la censura dei contenuti in Cina, ma abbiano iniziato ad imporla anche nel cosiddetto mondo libero.
Insomma, più che alla democratizzazione in Cina stiamo assistendo alla “cinesizzazione” dell’Occidente. Una prospettiva tutt’altro che incoraggiante.