Una nuova concezione della norma morale? No grazie!
Si fa strada una diversa concezione della norma, considerata come “sedimentazione e condivisione comunitaria di discernimenti verificati nell’esperienza”
In questo blog abbiamo più volte sostenuto che l’utilizzo della Dottrina sociale della Chiesa dipende dall’assetto generale della teologia morale, dentro il cui orizzonte essa si colloca. Se cambia il quadro della teologia morale e se la Chiesa ne assume uno nuovo, allora anche la Dottrina sociale cambia o addirittura può venire e sterilizzata. Ora, un punto centrale della teologia morale è il concetto di “norma” o “legge”: cosa essa sia e da dove nasca. E proprio su questo punto nevralgico la teologia morale cattolica sta cambiando prospettiva, incamminandosi verso un concetto di norma a cui dobbiamo dire di no.
Si è sempre ritenuto che la norma morale avesse due fonti: una naturale e una soprannaturale. La fonte naturale è la ragione umana in quanto rileva nell’essere delle cose i loro fini. La fonte soprannaturale è la rivelazione di Dio. La prima ci dà le norme della legge morale naturale e fonda il diritto naturale, la seconda si dà le norme della legge nuova evangelica, che però nulla toglie alla legge naturale ma la conferma e la perfeziona. Il magistero della Chiesa ha fissato le une e le altre nel suo insegnamento e le ha trasmesse nel tempo. La Chiesa, infatti, tutela e difende anche la legge naturale oltre che quella rivelata.
Così era fino a qualche tempo fa. Ed infatti la Dottrina sociale della Chiesa, che si colloca nel punto di incontro tra legge naturale e legge divina, ha sempre considerato il diritto naturale come una delle sue fonti, assieme al Vangelo. Se così non fosse non ci sarebbe convergenza tra ragione e fede. Le norme morali fondamentali non cambiano, sono riconoscibili da tutti gli uomini, non si oppongono alla situazione concreta oggetto della deliberazione della prudenza, non nascono dalla storia e non sono condizionate dall’esistenza, sicché la coscienza non è fonte normativa. La Veritatis splendor di Giovanni Paolo II aveva ripreso e precisato tutto questo quadro.
Ora, invece, si fa strada una diversa concezione della norma, considerata come “sedimentazione e condivisione comunitaria di discernimenti verificati nell’esperienza”. Le norme non sono quindi mai assolute o lo sono nel senso di un know-how sedimentato e a noi consegnato perché a nostra volta ce ne serviamo. La norma è un “punto di partenza”, una “valida guida” che emerge dalla “comprensione storica dei valori in gioco”. Un simile concetto di norma però lascia molto a desiderare: sedimentazione e condivisione non danno alcuna garanzia di verità. Per fare un esempio estremo: anche una banda di ladroni segue norme sedimentate e condivise. In questa concezione il discernimento della situazione non sta solo a valle della norma morale, ma contribuisce a formularla: in questo caso però la norma è sempre in qualche modo soggettiva. Non esisterebbe più la norma assoluta “non uccidere”, frutto della la legge naturale confermata e purificata dalla legge evangelica, ma esisterebbe il processo del discernimento collettivo su quell’ambito dell’agire umano, processo destinato ad evolversi e a cambiare. Non esistono più leggi cui obbedire, ma leggi da interpretare, anche nella loro genesi, sempre in dipendenza dalla situazione esistenziale di partenza.
Questa concezione di norma va oggi per la maggiore e il lettore di questo blog la può trovare per esempio espressa da Fabio Magro nell’ultimo numero della rivista “Studia Patavina”, della Facoltà Teologica del Triveneto. È una concezione storicistica, dato che la norma diventa frutto, appunto, di discernimento e condivisione. Ma ci si chiede: anche le norme formulate da Gesù Cristo sono da considerarsi frutto di discernimento e condivisione? Data la nuova prospettiva, naturalmente la risposta è sì: “Anche il Figlio di Dio incarnato è progredito secondo tappe di crescita umana nella comprensione della volontà del Padre e ha subito i condizionamenti necessariamente connessi con la condizione umana che hanno limitato la sua infinita e immediata conoscenza di tutto e di ogni cosa”. Qui sembra messa in discussione la unione ipostatica del Verbo Incarnato, il quale aveva due nature ma una sola persona, quella divina. Una conclusione gravissima, ma coerente con l’impianto storicistico della nuova teologia morale.
Norme morali frutto di discernimento sedimentato? No grazie!