Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Venerdì Santo a cura di Ermes Dovico
COSTA D'AVORIO

Una fabbrica di cioccolato, speranza per l'Africa

Una fabbrica di cioccolato in Costa D’Avorio,  primo produttore di cacao al mondo. La produzione  servirà 350 milioni di potenziali consumatori e la fabbrica darà lavoro a 350 persone. Un esempio di come i Paesi della fame possono cominciare a sfruttare le proprie ricchezze naturali a favore dello sviluppo interno.

Economia 03_06_2015
Fave di cacao

Buone notizie dall’Africa ne arrivano poche. In parte è anche perché in generale il bene non fa notizia: i mass media traboccano di catastrofi, violenze, scandali. Ma poi le buone notizie bisogna saperle riconoscere. L’apertura di una fabbrica di cioccolato, ad esempio, può sembrare un fatto insignificante che non merita attenzione. Ma invece non lo è, al contrario costituisce un evento storico, positivo in sé e tale da poter pesare favorevolmente sulla vita sociale ed economica di uno Stato se quello Stato è la Costa d’Avorio e se quella appena aperta è la prima fabbrica di cioccolato mai costruita nel Paese.

Per rendersene conto occorre però sapere che la Costa d’Avorio è il primo produttore mondiale di cacao: 1,5 milioni di tonnellate di fave all’anno, pari a circa il 40% della produzione globale. Il ricavato della vendita delle fave sui mercati internazionali, solo un quarto delle quali macinate, equivale al 50% degli introiti nazionali derivanti dalle esportazioni. Però produrre cioccolato in Costa d’Avorio renderebbe almeno dieci volte tanto. Che la Francia non avesse interesse a farlo quando il Paese era una sua colonia si può capire. Ma la Costa d’Avorio è indipendente dal 1960. Da allora sono passati 55 anni e solo adesso si avvia una produzione industriale di cioccolato, pensando per il momento al mercato interno e, in prospettiva, a quello regionale: in tutto 350 milioni di potenziali consumatori. 

La fabbrica, che produrrà barrette, tavolette e polvere di cioccolato, a pieno regime darà lavoro a 350 persone e utilizzerà da 2.000 a 3.000 tonnellate di fave. È poca cosa, ma è comunque un’iniziativa che va nella giusta direzione, quella di aggiungere valore alla produzione agricola – che si tratti di cacao, cotone, arachidi, caffè, te, frutta, verdura… – realizzando prodotti lavorati, il che sarebbe ancora più promettente se si trattasse di un’impresa voluta da imprenditori o società locali, ivoriane. Invece l’impianto, inaugurato il 18 maggio, è di proprietà della Cémoi, ditta francese numero uno del settore, operativa da 20 anni in Costa d’Avorio dove acquista ogni anno 150.000 tonnellate di fave di cacao. Quel che conta, tuttavia, è se la fabbrica viene accolta dagli ivoriani nella consapevolezza che l’unica via per uscire dalla povertà è lo sviluppo di settori produttivi moderni e di filiere di produzione che consentano la trasformazione in beni di consumo non solo dei prodotti agricoli, ma di tutte le materie prime di cui il Continente africano è straordinariamente ricco: legname, metalli, petrolio e altri minerali. 

Molti tentativi sono stati fatti, molti dei quali falliti, per far capire alle classi dirigenti africane e ai responsabili della cooperazione internazionale allo sviluppo che di questo necessita il Continente per realizzare crescita economica e sviluppo umano duraturi: e non solo perché le industrie impiegano manodopera e perché un prodotto lavorato vale e rende di più. Per produrre e commercializzare cioccolato o, per fare un altro esempio, marmellate occorrono molte cose: vasetti, barattoli, coperchi, involucri di carta e di stagnola, etichette, contenitori di cartone e plastica, macchine per il lavaggio e la sterilizzazione di vasetti e barattoli e via dicendo. Quasi sicuramente dapprima questi articoli devono essere importati in parte o del tutto. Ma se l’attività si consolida, in breve tempo qualcuno, tanto più se stimolato con opportuni incentivi e agevolazioni da un governo lungimirante, deciderà di rispondere alla domanda producendoli localmente. Poi occorrono imprese di marketing per pubblicizzare i prodotti, centri di ricerca per svolgere indagini di mercato, imprese di trasporto per distribuire le merci: aumenta il lavoro per le imprese già esistenti e ne nascono di nuove.

Questo vuol dire altra manodopera, famiglie con un reddito sicuro e adeguato alle loro necessità. Così l’economia cresce, il Prodotto interno lordo aumenta non più soltanto grazie alla vendita di materie prime, l’economia nazionale prima forte di un solo prodotto agricolo o minerario si diversifica, si aprono nuovi mercati. Resta il fatto – secondo una teoria largamente condivisa – che, se anche si superasse così la dipendenza dalle multinazionali, le piantagioni e le grandi imprese agricole che producono per il mercato continuerebbero a sottrarre terre ai raccolti alimentari per il consumo interno, mentre il futuro dell’Africa – così si dice – dipende dalla promozione dei piccoli agricoltori, delle imprese a conduzione familiare, perché in Africa non si coltiva cibo a sufficienza. Ma in questi termini il problema è in gran parte mal posto. 

Innanzitutto è vero che le attività agropastorali in Africa sono assai poco produttive. La scarsa produttività deriva da un’organizzazione tradizionale del lavoro irragionevole e dalla carenza, quando non totale assenza di tecnologie moderne ben impiegate: è questo che manca ad agricoltori e pastori. Il rimedio non può essere moltiplicare i terreni a loro disposizione sottraendoli all’industria agricola. In secondo luogo, la fame non si sconfigge necessariamente perseguendo l’autosufficienza alimentare, ma producendo abbastanza risorse, incluse, certo, quelle alimentari, affinché nessuno manchi del necessario. Per fare un esempio, la Svizzera non è autosufficiente dal punto di vista alimentare, ma il cibo basta per tutti e anzi i suoi abitanti godono di un reddito procapite tra i più elevati al mondo: con oltre 53.000 dollari a persona, la Svizzera è terza per Prodotto nazionale lordo pro capite dopo Norvegia (altro esempio di risorse che suppliscono a raccolti alimentari insufficienti) e Australia.   Che gli africani acquistino in altri Continenti parte del cibo che consumano poco importerebbe se fossero in grado di farlo senza indebitarsi.