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DAZI

Una cortina di ferro cala sul Pacifico. Usa e Cina non scambiano più

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La guerra commerciale fra Usa e Cina è arrivata a livelli di allarme con tariffe del 125% da parte americana e 84% da parte cinese, più altri divieti che di fatto rendono impossibile lo scambio fra le prime due economie del mondo.

Economia 12_04_2025
Donald Trump e Xi Jinping (La Presse)

Nel Pacifico è calata una nuova cortina di ferro. Stavolta si tratta di un muro fatto di dazi, imposti da entrambe le parti, ma fra Cina e Usa i rapporti non sono mai stati così tesi.

L’escalation è stata rapidissima, appena una settimana. L’amministrazione Trump, il 2 aprile, aveva imposto tariffe più alte per la Cina, cumulativamente del 54%, nel “giorno della liberazione”, come lo ha chiamato il presidente Usa. Il regime di Pechino ha risposto imponendo il 34% su tutte le importazioni americane. Trump allora ha quasi raddoppiato, portando le tariffe al 104%. La Cina ha alzato le sue all’84% e Trump al 125%. Praticamente gli Usa stanno vietando ogni importazione dalla Cina e la Cina dall’America. Il commercio che resta fra le due prime economie del mondo (prime per produzione) è quello tramite paesi terzi, soprattutto il Messico, destinazione di molte delle esportazioni cinesi.

Il mese era dunque iniziato con una sorta di uscita degli Usa dalla globalizzazione e sta trasformandosi in una guerra fredda, di nuovo tipo, fra Washington e Pechino. Inizialmente Trump aveva considerato dazi per tutti i paesi con cui gli Usa hanno una bilancia commerciale in deficit (più importazioni che esportazioni), poi li ha sospesi per tre mesi. Il cambiamento di idea potrebbe essere parte di una strategia negoziale, così come una mossa forzata dalla crisi innescata dall’annuncio del “giorno della liberazione” e dei suoi immediati effetti su tutti i titoli in borsa, oltre al rischio di una perdita di valore dei bond statunitensi. Gli storici dell’amministrazione Trump ci diranno cosa è successo prima della sua marcia indietro. Ma con la Cina il discorso è diverso. Gli Usa stanno già facendole la guerra commerciale dai tempi della prima amministrazione Trump (2016-20). Il successore Joe Biden non ha cambiato postura. Ed ora si arriva a quella che ha tutta l’aria di essere una resa dei conti.

Tre gli esiti possibili: si arriva a un accordo di compromesso, cedono gli Usa, oppure cede la Cina. Per ora non ci sono segnali di disgelo, anzi, la Cina pare determinata a tener testa a Trump, che ormai conosce bene (avendoci avuto a che fare nella precedente guerra commerciale). Dal canto suo, Trump sulla Cina ha le idee chiare da sempre, non ha mai cambiato linea. E anche le varie anime della sua maggioranza in Congresso, che sui dazi (in generale) si sono mostrati più divisi che mai, sulla Cina sostengono la linea del confronto duro.

Cederanno prima gli Usa? Ne è convinto lo storico Niall Ferguson, fra gli altri pessimisti. La potenza americana si basa in gran parte sulle importazioni di semilavorati dalla Cina, la “fabbrica del mondo”. Gli americani non hanno alcuna intenzione di tornare a lavorare alla catena di montaggio, obbedendo al programma di Trump che mira a “riportare a casa” la produzione manifatturiera. Gli operai americani costerebbero troppo, sarebbe anti-economico. Se è vero che la Cina ha giocato in modo sleale e da quando è entrata nel Wto (2001) non ne rispetta le regole, ora, dice Ferguson, è troppo tardi per porvi rimedio. E il metodo delle tariffe sulle importazioni è sbagliato perché colpisce più gli americani dei cinesi stessi. Lo storico conservatore fa notare come le prime ripercussioni gravi della guerra tariffaria siano state nel mercato americano e non in quello cinese.

O cederà prima la Cina? La Repubblica Popolare ha affinato, nel corso degli anni, nuove armi per affrontare una guerra commerciale. Può colpire (con strumenti finanziari e giudiziari) le aziende americane che operano nel mercato cinese, così come limitare le esportazioni di terre rare, colpendo sia l’industria di alta tecnologia, sia l’industria degli armamenti americane. La Cina, però, anche dopo il Covid-19, non ha più ingranato la marcia della crescita economica come ai tempi pre-pandemici. Le sue stesse misure di lockdown prolungati e totali hanno contribuito a distruggere il tessuto produttivo dei maggiori centri industriali e commerciali. E poco prima che iniziasse questa guerra commerciale, i cinesi erano alle prese con lo scoppio della grande bolla immobiliare. Un sistema fragile, che dipende ancora più dalle esportazioni, deve continuare a mantenere aperte le porte del mercato. Di qui si spiegano gli abboccamenti per nuovi accordi di libero scambio anche con paesi ostili (Corea del Sud, Vietnam e Giappone).

La speranza finale della Cina è di compensare la perdita del mercato americano con quello, altrettanto ricco, dell’Europa. E su questo Pechino conta molto sull’aiuto di Trump: la sua ostilità manifesta all’Ue e al Vecchio Continente in generale, le sue dichiarazioni gratuitamente offensive, le minacce sulla Groenlandia, stanno spingendo di nuovo l’Ue nelle braccia della Cina. E non sarebbe uno sviluppo positivo per noi. La Cina non si è mai limitata al commercio, vuole espandere anche la sua influenza ideologica e politica. Per gli europei non si tratterebbe solo di vendere in Cina quel che non si riesce più ad esportare negli Usa, ma di “vendere l’anima” al Partito Comunista Cinese.