Un romanzo per imparare a costruire la pace
“Non si può vivere di rabbia, figlio mio, io prego perché la nostra gente e gli ebrei possano un giorno lavorare uniti per costruire il nostro Paese, anziché distruggerlo”. La struggente storia di una famiglia palestinese, scritta da un’autrice ebrea, ci fa riflettere anche sull’attuale conflitto fratricida in Ucraina, aprendoci una via di speranza.
Michelle Cohen Corasanti è un avvocato, specializzata in Diritto internazionale e in Diritti civili. Americana di religione ebraica, ha scritto Come il vento tra i mandorli (pubblicato in Italia nel 2014 da Feltrinelli): una lettura estremamente attuale, interessante proprio per i nostri tempi di guerra, in cui ci interroghiamo sul modo di diventare costruttori di pace in situazioni complesse e incancrenite. Come quella drammatica dei palestinesi scacciati dai loro territori dagli israeliani, a loro volta perseguitati in passato dall’orrore dell’Olocausto; oppure come l’attuale conflitto russo-ucraino, che sembra lontano da una possibilità di pacificazione.
La chiave non può che essere uno sguardo diverso sull’altro, non più da considerare soltanto come nemico ma visto con un atteggiamento di fiducia, nella prospettiva di voler a tutti i costi costruire un futuro di vita accettabile per tutti. Ciò richiede però la capacità eroica del perdono, per spezzare con coraggio la catena ininterrotta di vendette per le ingiustizie subite e di violenze perpetrate per garantire la propria sicurezza. È proprio questo il cammino di sofferenza, carico però di fiducia da rinnovare in continuazione, indicato con voce rotta e dai toni profetici dal Patriarca di Gerusalemme dei Latini Pierbattista Pizzaballa: ne ha parlato suscitando grande commozione al recente Meeting di Rimini, pur non facendosi illusioni sulla difficile strada da percorrere per risolvere finalmente il dramma dei profughi palestinesi, ormai dimenticati dai potenti del mondo.
Il romanzo di esordio di Michelle Cohen Corasanti, in un arco di tempo che va dal 1955 al 2009 ci racconta, proprio attraverso il punto di vista di un ragazzo palestinese, nato e cresciuto in una terra martoriata e controllata in modo ferreo dai soldati israeliani, le vicende drammatiche della sua famiglia, segnate da lutti spaventosi, ferite, incarcerazioni, ingiustizie, attentati, ma anche da un’indomabile volontà di non arrendersi al male. È Baba, il padre di Ichmad, il giovane protagonista di tutta la storia che, pur ingiustamente incarcerato, insegna al figlio a superare il rancore, a perdonare, a vincere la diffidenza e perfino la violenza con l’amore; anche se tutta la famiglia viene scacciata in un batter d’occhio dalla sua casa e si trova a vivere all’aperto senza alcuna protezione.
L’incipit del libro è terribile: Amal, la sorellina di Ichmad, rincorrendo una farfalla, salta inconsapevole su una mina vicino a casa sua. Non poteva certo leggere, lei così piccola, il cartello che vietava l’accesso a quella zona pericolosa e così il suo corpicino viene orrendamente smembrato. Il fratellino reagisce con rabbia e disperazione, e nutre avversione per quegli occupanti che decidono quando e come i palestinesi possono uscire di casa o addirittura li possono scacciare o arrestare senza alcuna giustificazione. Mentre loro, gli israeliani, vivono nel lusso, hanno belle case, acqua pulita, elettricità… Questo è quello che vede il ragazzino dall’alto del mandorlo su cui si arrampica per trovare conforto e osservare con collera un mondo tanto ingiusto.
Ma il piccolo Ichmad ha un dono: è un genio in erba della matematica, studia con talento, anche se purtroppo per un palestinese le prospettive di istruzione sono minime. Il padre Baba, dal carcere in cui è rinchiuso senza motivo lo spinge a “non voltare le spalle alle sue doti” e quindi il ragazzino lavorerà duramente di giorno, per mantenere la famiglia, e di sera studierà. Il professore di matematica, amico di suo padre, lo aiuterà a prepararsi ad una competizione che vincerà, trovando così le porte spalancate per l’università. L’ambiente israeliano che inizia a frequentare gli è però ostile, malgrado la suo innegabile bravura; ma proprio grazie a quell’atteggiamento di disponibilità e umiltà, priva di pregiudizio, che ha imparato da Baba (che viene persino rispettato dai secondini in carcere) riesce a collaborare con uno dei più grandi ricercatori israeliani, il professor Sharon.
“L’istruzione è stata la mia ancora di salvezza, e grazie ad essa sono stato in grado di elevarmi al di sopra delle circostanze in cui ero costretto a vivere”. È questa la conclusione a cui giunge Ichmad, che però sa perfettamente che il fulcro della sua vita è l’esempio del padre, uomo mite ma tutt’altro che debole, che lo ha indirizzato con determinazione a costruirsi un futuro superando la condanna del rancore: “Promettimi che farai qualcosa della tua vita. Non farti risucchiare da questa lotta”. Così il giovane cresce in una strada irta di difficoltà ma che lo porterà al successo, inaugurando un processo di collaborazione impensabile tra persone appartenenti a popoli che si considerano nemici. Una lezione valida sempre, e per tutti.
Come il vento tra i mandorli è un romanzo davvero commovente, segnato da un profondo dolore e dall’ingiustizia ma aperto con coraggio indomabile anche al perdono e alla vera capacità di amare, al di là delle divisioni di razza e religione. È una lettura affascinante per giovani e adulti, perché mostra che l’odio non è invincibile. Nel mondo di oggi è uno stimolo di cui abbiamo bisogno per uscire dalla nostra indifferenza e dalla presunzione di sapere chi sono i buoni e chi sono i cattivi, pronti a schierarci contro i presunti nemici. Invece, come ricorda Baba al figlio Ichmad nella sua semplicità, la verità è un’altra. “La gente odia perché ha paura di ciò che non conosce: se solo le persone avessero l’occasione di conoscere coloro che odiano, di trovare degli interessi comuni, potrebbero superare l’avversione”. Un insegnamento sempre attuale.