Un appello: confermare l'insegnamento della Humanae Vitae (e della Veritatis Splendor)
Una cinquantina di teologi e filosofi esperti di morale lanciano un appello contro il no. 137 dell'Instrumentum laboris del prossimo Sinodo sulla famiglia: è un attacco alla Humanae Vitae e a tutto l'insegnamento della Chiesa in fatto di morale.
Il 23 giugno 2015 è stato pubblicato un Instrumentum laboris (“documento di lavoro”) approntato in vista della XIV Assemblea Ordinaria del Sinodo dei Vescovi. Esso affronta una gamma di argomenti legati al tema della famiglia scelto per il Sinodo. Nel suo paragrafo 137 un documento-chiave del Magistero moderno, l’enciclica Humanae Vitae, viene trattato in un modo che pone in discussione la forza di quell’insegnamento e al tempo stesso propone un metodo di discernimento morale che è decisamente non cattolico. Questo modo di affrontare il discernimento contraddice quanto finora insegnato dal Magistero della Chiesa circa le norme morali, la coscienza e il giudizio morale, suggerendo che una coscienza ben formata possa trovarsi in conflitto con le norme morali obiettive.
Nella nostra qualità di teologi morali e filosofi morali cattolici, avvertiamo il dovere di prendere la parola contro la distorsione dell’insegnamento cattolico che è implicita nel paragrafo 137 dell’Instrumentum laboris. Se avallato dal Sinodo, questo testo difettoso dell’Instrumentum laboris provocherebbe confusione fra i fedeli. Il paragrafo 137 dovrebbe essere pertanto soppresso e sostituito da un paragrafo che parli della coscienza in modo più preciso, che celebri la saggezza e la bellezza della Humanae Vitae e che aiuti i coniugi a comprendere che le grazie sono a loro disposizione per vivere il piano di Dio riguardo al dono della sessualità.
LA NORMA MORALE
La traduzione ufficiale inglese dalla pagina web del Vaticano recita:
In relation to the rich content of Humanae Vitae and the issues it treats, two principal points emerge which always need to be brought together. One element is the role of conscience as understood to be God’s voice resounding in the human heart which is trained to listen. The other is an objective moral norm which does not permit considering the act of generation a reality to be decided arbitrarily, irrespective of the divine plan of human procreation. A person’s over-emphasizing the subjective aspect runs the risk of easily making selfish choices. An over-emphasis on the other results in seeing the moral norm as an insupportable burden and unresponsive to a person’s needs and resources. Combining the two, under the regular guidance of a competent spiritual guide, will help married people make choices which are humanly fulfilling and ones which conform to God’s will.
Se la traduzione inglese è molto ambigua, l’originale italiano è ancora più problematico:
Tenendo presente la ricchezza di sapienza contenuta nella Humanae Vitae, in relazione alle questioni da essa trattate emergono due poli da coniugare costantemente. Da una parte, il ruolo della coscienza intesa come voce di Dio che risuona nel cuore umano educato ad ascoltarla; dall’altra, l’indicazione morale oggettiva, che impedisce di considerare la generatività una realtà su cui decidere arbitrariamente, prescindendo dal disegno divino sulla procreazione umana. Quando prevale il riferimento al polo soggettivo, si rischiano facilmente scelte egoistiche; nell’altro caso, la norma morale viene avvertita come un peso insopportabile, non rispondente alle esigenze e alle possibilità della persona. La coniugazione dei due aspetti, vissuta con l’accompagnamento di una guida spirituale competente, potrà aiutare i coniugi a fare scelte pienamente umanizzanti e conformi alla volontà del Signore.
Mentre la traduzione inglese ammorbidisce la divisione implicita tra la coscienza e le norme in quanto parla di “two principal points”, la versione italiana irrigidisce la divisione parlando di “due poli”. Mentre la traduzione inglese parla di una “over-emphasis”, la versione originale parla del “prevalere” di un lato sull’altro. La lingua di lavoro del Sinodo l’anno scorso è stato l’italiano, perciò si può presumere che lo stesso avverrà questo anno. Indipendentemente da quale delle due versioni si usi, il paragrafo 137 non presenta correttamente né il ruolo della coscienza né lo statuto delle norme. La formulazione del paragrafo è profondamente ambigua e tende a dipingere la norma morale come estrinseca alle persone umane e alla vita buona che sono chiamate a vivere. Così facendo suggerisce che la norma sia esclusivamente negativa e, per così dire, coercitiva. Porre in tal modo l’accento sulla funzione proibitiva della norma equivale a ignorare il ruolo positivo svolto dalla norma nel promuovere la crescita personale del soggetto morale e la sua realizzazione nel bene. Poiché il passo non insegna che la norma stessa, in tutta la sua oggettività, rivela qualcosa di indispensabile per la bellezza e la bontà della vita umana ben vissuta, esso dà anche l’impressione che le norme morali potrebbero essere “un peso insopportabile, non rispondente alle esigenze e alle possibilità della persona”.
Il modo in cui questo paragrafo presenta la norma morale non tiene conto di quanto si legge al n. 15 della Veritatis Splendor: “Gesù mostra che i comandamenti non devono essere intesi come un limite minimo da non oltrepassare, ma piuttosto come una strada aperta per un cammino morale e spirituale di perfezione, la cui anima è l’amore (cfr. Col 3:14)”. Interpretare la norma morale come qualcosa che stabilisce esclusivamente delle limitazioni estrinseche e potenzialmente in contrasto con il bene del soggetto morale, equivale a ignorare che Gesù Cristo insegna i comandamenti come qualcosa di pregno della pienezza di vita da Lui promessa.
Suggerire che il contenuto oggettivo di una norma morale possa essere “non rispondente alle esigenze della persona”, cosicché la conformità ai suoi comandamenti possa non promuovere il bene morale della persona, cioè il “bene della persona” (cfr. VS 50), è in contraddizione con la concezione cattolica della morale. La tesi secondo cui le norme morali possano anche non promuovere la felicità umana rispecchia una visione nominalistica e arbitraria della legge morale, visione secondo la quale un’azione è cattiva per l’unico motivo che è proibita. Una visione siffatta non corrisponde in alcun modo alla realtà della creazione di Dio. Va piuttosto affermato che, la legge morale, essendo corrispondente alla verità dell’atto creativo di Dio, esprime verità antropologiche in merito alla persona umana che non possono esser ignorate o violate senza ledere le nostre “esigenze e possibilità”, vale a dire senza far male a se stessi.
Sostenere che il contenuto oggettivo delle norme morali, così come si trova nelle Sacre Scritture e viene proposto dal Magistero, possa non corrispondere alle “possibilità” della persona, equivale a negare l’insegnamento esplicito, consolante e pieno di speranza del Concilio di Trento: “Nessuno poi, benché giustificato, deve ritenersi libero dall’osservanza dei comandamenti; nessuno deve far propria quell’espressione temeraria e condannata con la scomunica dai Padri, secondo la quale è impossibile all’uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio. Dio infatti non comanda ciò che è impossibile, ma nel comandare ti esorta a fare tutto quello che puoi, a chiedere ciò che non puoi e ti aiuta perché tu possa; infatti ‘i comandamenti di Dio non sono gravosi’ (cfr. 1 Gv 5:3) e ‘il suo giogo è soave e il suo peso è leggero’ (cfr. Mt 11:30)” (sessione VI.11). Il paragrafo 137 dell’Instrumentum laboris non consiglia di affidarsi a Dio per trovare la forza di obbedire ai Suoi comandamenti, ma suggerisce invece che un agente morale potrebbe trovare un terreno intermedio sul quale bilanciare le “esigenze e possibilità” soggettive, percepite nel proprio discernimento, con il reale contenuto della legge morale. Così facendo, si perde completamente di vista il modo in cui il Concilio interpreta la grazia della redenzione di Cristo, riaffermato al capitolo II della Veritatis Splendor: “Perché non sia resa vana la Croce di Cristo.”
Il vero ministero pastorale non tenta di adattare la legge morale alle possibilità percepite dagli stessi coniugi (“gradualità della legge”), ma cerca piuttosto di accompagnarli in un cammino, magari lungo e arduo, di crescita morale, che la forza della grazia di Dio consente loro di intraprendere (“legge della gradualità”) (cfr. FC 34). La legge della gradualità sarà praticata dai confessori, i quali non dovranno mostrarsi severi con i coniugi che mancano ripetutamente di mantenersi fedeli al piano di Dio per la sessualità, ma invece avranno cura di incoraggiarli a ricercare con più ardore le grazie necessarie per ordinare opportunamente i loro desideri sessuali.
LA COSCIENZA
Non meno ambiguo e incompleto è il modo in cui il paragrafo 137 presenta la coscienza. Vi si legge infatti che la coscienza è “la voce di Dio che risuona nel cuore umano educato ad ascoltarla”.
Questa definizione sembra essere una distorsione del n. 16 di Gaudium et Spes, dove si legge: “Nell’intimo della coscienza l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa’ questo, evita quest’altro. L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità. Tramite la coscienza si fa conoscere in modo mirabile quella legge che trova il suo compimento nell’amore di Dio e del prossimo”.
L’Instrumentum laboris manca di sottolineare che la coscienza si riferisce alla legge iscritta nel nostro cuore: è proprio questo il senso in cui va interpretata “la voce di Dio”. In materia di morale, la “voce” di Dio non dice una cosa a una persona e una cosa diversa a un’altra, e non parla mai contro una norma oggettiva insegnata dalla Chiesa. Parlare di una voce di Dio che appaia scissa dalla legge morale, o che sembri mancare di ogni riferimento a questa, è grossolanamente inadeguato. È errato parlare di un polo soggettivo estrinseco alla legge e che con questa debba poi essere coniugato.
Dagli errori contenuti nel paragrafo 137 sembra conseguire non semplicemente il rischio di “scelte egoistiche”, ma piuttosto un soggettivismo radicale nella nostra visione della vita morale, nella misura in cui la coscienza è scissa da quella illuminante presenza interna che è la legge morale. Una volta separata dalla legge, la coscienza stessa non è più un modo di trovarsi davanti a Dio. Invece, secondo questo modo di pensare, nella propria coscienza ci si trova soltanto davanti a se stessi. Il commento della Veritatis Splendor a Rm 2:14-15 esprime il modo in cui la coscienza rettamente intesa ci conduce alla presenza di Dio: “Secondo le parole di san Paolo, la coscienza, in un certo senso, pone l’uomo di fronte alla legge, diventando essa stessa ‘testimone’ per l’uomo: testimone della sua fedeltà o infedeltà nei riguardi della legge, ossia della sua essenziale rettitudine o malvagità morale” (VS 57).
L’idea che la coscienza faccia intrinseco riferimento a una verità oggettiva sul bene è del tutto assente dal paragrafo 137. Presentando la coscienza come una facoltà soggettiva che sta in opposizione dialettica alla legge, l’Instrumentum laboris propone una concezione che è incompatibile con gli insegnamenti del Magistro della Chiesa e che sminuisce la dignità spirituale della persona umana in quanto persona capace di conformare le proprie azioni alla verità oggettiva.
IL GIUDIZIO MORALE
In definitiva, secondo la logica del paragrafo 137 il giudizio morale non è più un giudizio della coscienza illuminato dalla legge, bensì la “coniugazione” di due poli, uno soggettivo e uno oggettivo. Dobbiamo sottolineare che tale coniugazione dei due elementi dialettici avviene senza alcun criterio. Se coscienza e legge sono i due poli che vanno coniugati, nessuno dei due può fornire criteri sul modo di coniugarli. Altrimenti detto, l’Instrumentum laboris sembra lasciar intendere che il criterio ultimo della morale sia arbitrario.
Né costituisce una soluzione a questa difficoltà il ricorso all’aiuto esterno da parte di una “guida spirituale competente”. Se è indubbio che una fedele direzione spirituale può arrecare molti benefici, in questo contesto il suggerimento di farvi ricorso non è che un modo di ammettere la mancanza di criteri (diversi dalla guida del direttore spirituale) su cui basare la decisione finale. Occorre sottolineare che pochi sposi hanno accesso abituale alla direzione spirituale. Ma l’aspetto ancor più fondamentale è che questa soluzione rende i coniugi dipendenti dal giudizio morale di esperti pastorali, e tale dipendenza contraddice la natura stessa della coscienza.
Una guida spirituale non avrà accesso ai criteri oggettivi più pienamente della coscienza ben formata (“educata ad ascoltare”), e la missione del direttore spirituale è di non suggerire né giustificare mai alcuna violazione della legge morale di Dio. Anzi la stessa enciclica Humanae Vitae insiste sulla necessità che coloro che guidano gli sposi non compromettano mai la verità: “Non sminuire in nulla la salutare dottrina di Cristo, è eminente forma di carità verso le anime” (HV 29).
San Giovanni Paolo II, il Papa della Famiglia, ha chiarito come sia impossibile che una valutazione dei beni soggettiva e privata prevalga sui beni oggettivi: “Parlare di ‘conflitto di valori o beni’ e della conseguente necessità di compiere come una sorta di ‘bilanciamento’ degli stessi, scegliendo uno e rifiutando l’altro, non è moralmente corretto, e genera solo confusione nelle coscienze degli sposi” .
Tuttavia, presentando il giudizio morale come un possibile conflitto fra coscienza e morale oggettiva, il paragrafo 137 cade nella fallacia denunciata da Veritatis Splendor 56: “Oltre al livello dottrinale e astratto, occorrerebbe riconoscere l’originalità di una certa considerazione esistenziale più concreta. Questa, tenendo conto delle circostanze e della situazione, potrebbe legittimamente fondare delle eccezioni alla regola generale e permettere così di compiere praticamente, con buona coscienza, ciò che è qualificato come intrinsecamente cattivo dalla legge morale. In tal modo si instaura in alcuni casi una separazione, o anche un’opposizione, tra la dottrina del precetto valido in generale e la norma della singola coscienza, che deciderebbe di fatto, in ultima istanza, del bene e del male. Su questa base si pretende di fondare la legittimità di soluzioni cosiddette ‘pastorali’ contrarie agli insegnamenti del Magistero e di giustificare un’ermeneutica ‘creatrice’, secondo la quale la coscienza morale non sarebbe affatto obbligata, in tutti i casi, da un precetto negativo particolare”.
L’enciclica di Giovanni Paolo II anticipa, per così dire, le formulazioni dell’Instrumentum laboris e il suo riferimento al peso che graverebbe sulle nostre “esigenze e risorse”: “La dottrina della Chiesa e in particolare la sua fermezza nel difendere la validità universale e permanente dei precetti che proibiscono gli atti intrinsecamente cattivi è giudicata non poche volte come il segno di un’intransigenza intollerabile, soprattutto nelle situazioni enormemente complesse e conflittuali della vita morale dell’uomo e della società d’oggi. [...] In realtà, la vera comprensione e la genuina compassione devono significare amore alla persona, al suo vero bene, alla sua libertà autentica. E questo non avviene, certo, nascondendo o indebolendo la verità morale, bensì proponendola nel suo intimo significato di irradiazione della Sapienza eterna di Dio, giunta a noi in Cristo, e di servizio all’uomo, alla crescita della sua libertà e al perseguimento della sua felicità” (VS 95).
Le formulazioni ambigue e imprecise del paragrafo 137 fanno pensare che si neghi l’esistenza di atti intrinsecamente cattivi. Il testo suggerisce che non vi siano norme morali dotate di validità assoluta, universale e immutabile che proibiscano sempre e senza eccezione gli atti intrinsecamente cattivi. In tal modo il testo sembra porre in questione la Tradizione della Chiesa e gli espliciti insegnamenti dell’enciclica Veritatis splendor (79-82; 115).
IL VERO CONTENUTO DELLA HUMANAE VITAE
Il paragrafo 137 presenta l’insegnamento della Humanae Vitae in un modo che consente un’interpretazione gravemente erronea del suo significato. L’Instrumentum laboris sintetizza l’enciclica sostenendo che essa insegna “l’indicazione morale oggettiva, che impedisce di considerare la generatività una realtà su cui decidere arbitrariamente, prescindendo dal disegno divino sulla procreazione umana”.
L’espressione “su cui decidere arbitrariamente” induce a cadere nell’errore interpretativo di ritenere le pratiche contraccettive accettabili purché adottate per ragioni non “arbitrarie”. Malauguratamente, quest’espressione, specialmente alla luce delle altre idee espresse nel paragrafo, suggerisce che possano esservi altre ragioni, “non arbitrarie”, che in determinate circostanze consentirebbero l’uso della contraccezione. Di certo, il paragrafo avrebbe potuto essere più chiaro nel far capire che la Humanae Vitae non lo consente affatto (cfr. HV 11). L’enciclica Humanae Vitae insegna infatti che il piano di Dio per il rapporto sessuale coniugale “[esclude] ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione” (HV 14).
Infine, il paragrafo 137 è ben lungi dal promuovere la solida antropologia su cui il Beato Paolo VI, e San Giovanni Paolo II dopo di lui, hanno fondato il preciso insegnamento normativo della Chiesa: gli esseri umani sono fatti per amare e per essere amati. Di fatto, la contraccezione è incompatibile con l’amare e l’essere amati. Mediante l’uso dei contraccettivi non soltanto si rifiuta il significato procreativo dell’atto coniugale, ma si compromette radicalmente anche il suo significato di atto “unitivo” o di atto d’amore genuino (cfr. HV 12). Nelle sue Catechesi sull’amore umano (“teologia del corpo”), Giovanni Paolo II ha svolto, sulla base delle Sacre Scritture, una difesa dell’insegnamento della Humanae Vitae fondata sul significato nuziale del corpo. L’atto sessuale è un atto di dono di sé che completa chi lo compie e l’altra persona, ed è intrinsecamente ordinato alla fecondità propria dell’amore coniugale. È triste che l’Instrumentum non attinga alla profonda teologia del corpo di Giovanni Paolo II, una teologia che rifiuta di considerare le norme morali oggettive in tensione con il bene umano o con una coscienza della bontà dell’atto coniugale.
Il paragrafo 137 parla della “ricchezza di sapienza” della Humanae Vitae, ma poi mina lo scopo centrale dell’enciclica stessa. Secondo l’intento dichiarato di Paolo VI (cfr. HV 4), e compiendo gli auspici del Concilio Vaticano II che auspicava un documento di questo genere (cfr. GS 51), la Humanae vitae punta a offrire nulla meno che un’interpretazione normativa della legge morale naturale.
CONCLUSIONI
Alla luce di quanto detto fin qui, noi crediamo che il testo dell’Instrumentum laboris contenga gravi difetti. Esso sembra porsi direttamente in contrasto con gli insegnamenti del Magistero contenuti nella Humanae Vitae e nella Veritatis Splendor. Il paragrafo 137 si presenta infatti come una spiegazione del significato della Humanae Vitae ma in realtà la svuota del suo insegnamento centrale. Non si tratta di un dettaglio secondario, bensì di una grave distorsione del contenuto fondamentale del documento di Paolo VI. Le inadeguatezze e le distorsioni contenute nell’Instrumentum laboris rischiano di avere conseguenze devastanti per i fedeli, che hanno diritto di conoscere la verità del depositum fidei. Infatti, se sarà avallato dal Sinodo, il paragrafo 137 seminerà confusione fra i fedeli. Questi ultimi non saranno indotti ad apprezzare e a vivere l’insegnamento bello e affermativo sulla sessualità che la Humanae Vitae presenta, e saranno confusi riguardo al rapporto fra coscienza e verità morale oggettiva. Ma in ultima analisi la loro confusione non si limiterà all’insegnamento della Humanae Vitae. Permettere che le formulazioni contenute nel paragrafo 137 entrino a far parte dell’insegnamento del Sinodo comporterebbe infatti di poter applicare la logica di questo testo anche ad altri ambiti in cui è in gioco l’insegnamento della Chiesa circa gli atti intrinsecamente cattivi, quali, ad esempio, l’aborto o l’eutanasia.
Non è la prima volta che accade. La mancata espressione del proprio fermo appoggio per l’insegnamento della Humanae Vitae da parte di tanti teologi e persino di molti vescovi e sacerdoti ci ha portato a decenni di disobbedienza all’insegnamento della Chiesa, e in tutti gli ambiti, non soltanto nella sfera sessuale. Il Sinodo rappresenta un’occasione per colmare tale lacuna. Il paragrafo 137 dovrebbe essere respinto e sostituito con una ferma affermazione dell’insegnamento della Humanae Vitae e con una chiara spiegazione del rapporto fra coscienza e norme morali oggettive, così come lo addita la Veritatis Splendor.
Dichiariamo quanto sopra nella nostra qualità di teologi e filosofi cattolici esperti di morale, desiderosi di dare un contributo alla riuscita del Sinodo. Possa quest’ultimo essere sempre guidato dalla verità. È la verità stessa che consente il dialogo, in quanto fornisce i giusti parametri entro i quali il dialogo può svilupparsi. Con il presente appello esercitiamo proprio la parresìa, la franchezza auspicata da Papa Francesco per lo svolgimento del Sinodo dei Vescovi. Cerchiamo inoltre di fare la nostra parte nel discernimento del bene morale al servizio della Chiesa e di tutti i fedeli (cfr. VS 113).