Ultime follie da lockdown. Ci si chiede quanto sia servito
Si ricomincia a vivere? Sì, con quello che è rimasto in piedi. Perché dopo due mesi di lockdown e altre due settimane di libertà condizionata, la crisi economica, sociale e psicologica è devastante. Ne è valsa la pena? Sempre più studi mettono in discussione l'utilità del lockdown.
Il premier Conte ha esposto ieri le prossime tappe della Fase 2. Una graduale uscita dal lockdown che inizia domani con la riapertura di gran parte dei negozi. E ricominceranno le Messe con popolo, anche se in libertà vigilata. Una settimana dopo si potrà tornare anche nelle palestre e nelle piscine. In giugno torneranno ancora più aspetti della vita normale: dal 3 giugno si potrà tornare a viaggiare fra regioni differenti e persino uscire dai confini nazionali. Infine vi sarà la riapertura di cinema e teatri (i primi a chiudere all’inizio della pandemia) il 15 giugno.
Si ricomincia a vivere? Sì, con quello che è rimasto in piedi. Perché dopo due mesi di lockdown e altre due settimane di libertà condizionata, la crisi economica che ci attende sarà impressionante. Negli Stati Uniti dove, contrariamente all’Italia, si può licenziare anche in tempo di pandemia, i disoccupati sono poco più di 30 milioni, un livello mai visto dal 1929. In Italia, dove non si può licenziare, chiuderanno tutte le aziende che non hanno sufficienti riserve di liquidità. Si prevede un crollo del Pil superiore al 9% (secondo le stime più generose), il peggior dato dell’Unione Europea.
Il danno economico è solo un sintomo. La malattia post-lockdown è soprattutto psicologica e sociale. Vi sono episodi eloquenti, in quest’ultima settimana di chiusure, che dimostrano fino a che punto siamo arrivati in fatto di perdita della libertà personale e incattivimento collettivo. A Ravenna, i locali pubblici in attesa di apertura si stanno denunciando a vicenda, per vere e presunte trasgressioni del lockdown. Le autorità locali hanno raccolto almeno 158 segnalazioni in due mesi (3 al giorno) da parte di esercenti contro altri esercenti. La libertà personale è talmente ristretta che le autorità di un paese della Sicilia, Ravenusa, in provincia di Agrigento, hanno disposto un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio) nei confronti di un cittadino che, con l’altoparlante, in auto, ripeteva slogan contro il lockdown (“riaprite i negozi, togliete le mascherine, la pandemia non esiste”). E per questo è stato immobilizzato violentemente dalle forze dell’ordine, sedato dai medici e ricoverato in psichiatria per quattro giorni, isolato dai parenti. A Lecce, nel corso del funerale di una donna, Silvia, caso noto alla cronaca locale per la sua lunga battaglia contro una malattia rara, una vigilessa ha interrotto la funzione per prendere i dati personali di tutti i presenti. Tutte le testimonianze concordano che i presenti stessero rispettando le norme di sicurezza, la polizia locale ha peccato di “eccesso di zelo”. In pratica, non c’è neanche più rispetto per i morti.
Questi sono solo tre esempi di cosa stia diventando l’Italia dopo il lockdown: sospetti e delazioni fra cittadini, privazione delle libertà più elementari, mancanza di rispetto per tutti, anche per i morti. Oltre a una profonda violazione della libertà di culto, di cui abbiamo citato molti esempi su queste colonne. Ma tutto questo è servito? E quanto?
Perché, guardandoci indietro, sorge spontanea una domanda: e se il lockdown fosse stato inutile? Siamo consolati dalle stime dell’Imperial College che, ad aprile calcolava che senza lockdown noi avremmo subito più del doppio dei morti. Però, lo stesso Imperial College ha sbagliato completamente le sue stime, in più di un’occasione, anche per quanto riguarda il caso italiano. Secondo i ricercatori britannici guidati da Neil Ferguson, l’Italia avrebbe subito 283mila morti anche applicando il più rigido lockdown, con circa 30mila decessi in una sola settimana di picco. Il numero complessivo dei morti in Italia per Covid-19, in due mesi è stato di 31.763 vittime (dati del 16 maggio 2020). Poco più di un decimo di quel che prevedeva l’Imperial College. Si trattava di stime basate su conoscenze ancora approssimative della malattia, presupponendo, ad esempio, che anche i bambini fossero contagiati e contagiosi quanto gli adulti (mentre non lo sono) e che l’epidemia si sviluppasse in modo uniforme in tutta la Penisola, anche applicando il lockdown, mentre è rimasta confinata ad alcune regioni del Nord. Il dubbio viene, perché i modelli matematici hanno condizionato opinione pubblica e governi più di ogni altro fattore, ma quei modelli potrebbero essere sbagliati e aver generato una sovra-reazione.
Prima di marzo, i governi che hanno imposto il lockdown avevano già a disposizione esempi di Paesi che non stavano applicando la stessa strategia. Già da gennaio, la Corea del Sud, Taiwan, Giappone e Singapore non avevano chiuso che una minima parte delle attività sociali ed economiche dei loro Paesi, preferendo adottare una strategia più aggressiva, di test, tracciamento e quarantena di ogni singolo infetto. Poi, da marzo, è emerso l’esempio ancora più clamoroso della Svezia, che ha condotto ancor meno test dell’Italia, non ha messo in piedi delle infrastrutture troppo sofisticate per il tracciamento degli infetti e dei loro contatti, ha lasciato quasi del tutto libera la sua popolazione. In pratica gli svedesi hanno coesistito con il virus, lasciandolo circolare. E nonostante tutto, hanno avuto una curva epidemiologica con un andamento simile a quella dell’Italia, con un picco fra il 20mo e il 30mo giorno e poi un declino dei casi. Proporzionalmente alla sua popolazione, la Svezia ha registrato meno morti rispetto ad altri Paesi che hanno applicato un lockdown rigido: 361 morti per milione di abitanti in Svezia, contro i 522 in Italia, i 587 in Spagna, i 773 in Belgio.
Per quanto riguarda il confronto fra le nazioni colpite dall'epidemia, il biofisico premio Nobel Michael Levitt, constata come le curve epidemiologiche siano drammaticamente simili in tutti i Paesi, sia quelli che hanno applicato il lockdown, sia quelli che hanno lasciato più libera la loro popolazione. Ciò vuol dire logicamente solo due cose: che il lockdown è inefficace come misura preventiva, perché non impedisce all’epidemia di fare ugualmente il suo corso. Al tempo stesso vuol dire che il miglioramento della situazione, con il calo dei contagi e dei morti non sia dovuto all’applicazione degli ordini governativi che intimano di stare a casa, ma l’andamento naturale dell’epidemia. Valeva la pena autodistruggerci fino a questo punto?