Ue e rivolte arabe L'ambiguità è autolesionismo
Il governo provvisorio egiziano ha permesso all'inviato Ue Catherine Ashton di incontrare Morsi, malgrado lo scarso peso dell'Europa nella crisi egiziana e nel Medioriente. Ma dopo le rivolte e le controrivolte, l'Europa assiste da spettatrice a quanto avviene, senza essere in grado di capire i propri interessi.
Il governo provvisorio egiziano ha consentito all'inviato dell'Ue, Catherine Ashton, di incontrare il deposto presidente Mohamed Morsi nella prima visita autorizzata al leader islamista dal suo arresto e successiva detenzione in una località segreta. La Ashton, a quanto pare l'unica figura accettata da entrambe le parti come potenziale mediatore della crisi tra militari e Fratelli Musulmani che rischia di sfociare in guerra civile, ha detto di aver trovato Morsi in buone condizioni di salute e consapevole di quello che sta accadendo in Egitto. Morsi "sta bene" e "ha accesso alle informazioni", ha riferito la responsabile per la politica estera e di sicurezza della Ue che afferma di aver avuto col leader islamico "una discussione amichevole aperta e molto franca".
Considerato lo scarso peso rivestito dall’Europa nella crisi egiziana e in generale nel Medio Oriente resta da chiarire il motivo che ha indotto i militari egiziani a consentire alla baronessa inglese di incontrare Morsi, tenuto in isolamento da quasi un mese. Al Cairo gira voce che i militari vogliano esiliare Morsi ma la Ashton ha negato di aver offerto all’ex presidente egiziano una sorta di “uscita di sicurezza” per espatriare rinunciando alla politica. Di certo l'incontro con Morsi era una delle condizioni poste dalla stessa Ashton per la sua missione al Cairo nel tentativo di mediare o quanto meno di attribuire alla Ue un “ruolo di facilitatore" in Egitto, usando anche le proprie leve finanziarie per garantire il ritorno alla democrazia. Probabile che la missione della Ashton sia utile ai militari come ai fratelli Musulmani per dimostrarsi disponibili al compromesso agli occhi della comunità internazionale, o per pendere tempo e studiare le prossime mosse anche se gli islamisti hanno già indetto una nuova manifestazione di massa cercando forse l’ennesimo bagno di sangue.
La piega assunta dalla crisi egiziana e in generale la situazione di contrapposizione che si sta determinando dalla Siria alla Tunisia (anzi, dalla Turchia alla Tunisia) rischiano di non consentire ancora a lungo a europei e statunitensi di mantenere un atteggiamento neutrale. Dopo aver accolto con finto entusiasmo ma senza muovere un dito il crollo dei regimi filo occidentali di Mubarak e Ben Alì e dopo aver determinato con l’intervento bellico la caduta e la morte di Gheddafi, statunitensi ed europei hanno accolto con benevolenza i regimi islamisti guidati dai Fratelli Musulmani e il progressivo espandersi dell’applicazione della sharia in buona parte del Nord Africa. Colti di sorpresa dalla primavera araba e pronti ad accettare i nuovi regimi islamici, gli occidentali si sono fatti sorprendere anche dalle recenti rivolte che rivelano come la società araba abbia ancora molti movimenti culturali e politici pronti a combattere l’islamismo nel nome dei diritti e delle libertà. Movimenti che lottano per i valori in nome dei quali si erano sollevati contro i regimi autoritari, per portare il loro Paese verso il futuro non certo per farlo sprofondare nel Medio Evo islamico.
Valori che dovrebbero essere anche i nostri ma per i quali Stati Uniti ed Europa non sembrano pronti a schierarsi con coraggio e determinazione al fianco di chi vuole lasciare l’islam nelle moschee e lontano dai palazzi della politica. Certo non è “politically correct” schierarsi con i militari e troppi politici guardano a quanto avvenuto in Egitto con lo stesso approccio applicato nel 1973 al golpe militare contro Salvador Allende effettuato dai militari cileni. Forse non è neppure prudente schierarsi contro movimenti islamici che mischiano molto facilmente la politica con le armi e il terrorismo ma è in ogni caso necessario che l’Europa cerchi di influenzare gli sviluppi nel nostro “cortile di casa”.
Invece di tutelare i nostri interessi tentenniamo cercando di mantenere un equilibrio impossibile che rischia di aggravare il problema. L’esempio libico, dove abbiamo spianato la strada alla destabilizzazione qaedista a suon di bombe, rende bene l’idea del suicidio dell’Occidente ma anche il conflitto siriano offre non pochi spunti di riflessione in proposito. Fin dall’inizio della rivolta abbiamo abbandonato il nostro alleato Bashar Assad (con il quale Italia e Ue facevano da anni buoni affari senza disdegnare cooperazione militare e supporto politico a Damasco) per sostenere i ribelli che inizialmente erano per lo più movimenti laici e militari disertori. Un appoggio offerto solo a parole mentre sul campo di battaglia servivano armi e munizioni, ingredienti offerti però su vasta scala da Qatar e Arabia Saudita, impegnati in Siria come altrove a “islamizzare le primavere arabe” per evitare che i rigurgiti di libertà travolgano anche le ricche monarchie del Golfo.
Ora che la rivolta siriana è nelle mani dei jihadisti USA e Ue non sanno che fare, consapevoli che ogni aiuto o intervento finirà per aiutare chi odia l’Occidente e addestra terroristi per colpirci mentre la politica occidentale del “laissez faire” sta già consentendo ai governativi di riconquistare importanti posizioni. In Siria come in Egitto ancora una volta restiamo alla finestra a rinunciando a influire su eventi che in ogni caso ci riguardano e ci riguarderanno da vicino. Il rischio che la costa mediterranea si infiammi da Tunisi a Latakia è molto alto e se accadesse ne saremo certamente coinvolti quanto meno in termini di approvvigionamenti energetici e di profughi da accogliere in aggiunta ai già tanti immigrati clandestini in arrivo.