Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
Santi martiri cinesi a cura di Ermes Dovico
MEDIO ORIENTE

Trump-Netanyahu, stallo su Gaza. E l'alternativa di un "emirato"

Fra Netanyahu e Trump il negoziato è più difficile di quel che si creda. Netanyahu non vuole i "due Stati". E cinque sceicchi palestinesi potrebbero venirgli incontro proponendo una terza via, né con Hamas né con l'Autorità Palestinese.

Esteri 09_07_2025
La cena ufficiale alla Casa Bianca (La Presse)

Lunedì 7 luglio, il premier israeliano Netanyahu è stato incontrato alla Casa Bianca da Donald Trump, per la terza volta dall’inizio del mandato del presidente americano. L’incontro è stato replicato martedì 8 sera e i colloqui stanno continuando mentre questo articolo va online.

Per ora è il rapporto più stretto di Trump con un leader straniero. Stretto, ma non idilliaco. Gli Usa sostengono ancora Israele e lo hanno dimostrato durante la Guerra dei 12 Giorni con l’Iran, soprattutto con l’attacco a sorpresa (ma a lungo preparato) statunitense ai siti nucleari iraniani, fra cui l’apparentemente indistruttibile centro di Fordow. Tuttavia gli interessi non coincidono, soprattutto sui tempi. Trump ha bisogno di una tregua a Gaza, nel più breve tempo possibile. Netanyahu, al contrario, deve portare a casa una vittoria contro Hamas che sia definitiva, non la solita tregua più o meno stabile. E una vittoria potrebbe richiedere molto più tempo rispetto a quello che Trump vorrebbe.

L’esordio della visita del premier israeliano, a Washington, è stato caratterizzato da un episodio curioso come nel caso della visita precedente. L’altra volta Netanyahu aveva regalato a Trump un cercapersone d’oro, un omaggio all’operazione del Mossad (i cercapersone esplosivi con cui sono stati eliminati vertici e quadri di Hezbollah) che tuttora ufficialmente Israele non rivendica né può rivendicare. Questa volta, durante la prima cena ufficiale, ha consegnato al presidente Usa la lettera con la candidatura di Trump al Nobel per la Pace. Sicuramente il premier israeliano sa come far contento il suo alleato, conoscendo Trump, le sue aspirazioni e la sua plateale voglia di essere adulato.

Una volta finito l’idillio, i colloqui si sono tenuti a porte chiuse e dalla conferenza stampa congiunta non sono emersi elementi di novità. Soprattutto perché i colloqui di pace a Doha, fra Hamas e Israele, con la mediazione di Usa, Egitto e Qatar, non stanno procedendo. Sono ad un punto di stallo, per tentare di sbloccare il quale Trump ha inviato il suo rappresentante speciale Steve Witkoff a partecipare ai colloqui. Israele ha accettato le condizioni statunitensi: due mesi di tregua, uno scambio di 10 ostaggi israeliani vivi e 18 corpi di ostaggi uccisi, in cambio di un numero ancora da definire di prigionieri palestinesi.

Ma Hamas ha aggiunto clausole che per Netanyahu sono inaccettabili. Per il movimento islamico, infatti, gli aiuti umanitari non devono più essere distribuiti dalla fondazione Ghf (statunitense), bensì attraverso i canali ordinari internazionali (a pensare male: perché sa di poterli controllare, come finora è regolarmente accaduto). E chiede il ritiro delle forze armate israeliane da tutto il territorio della Striscia di Gaza. Ciò vorrebbe dire: Hamas resta al potere a Gaza. Se però Netanyahu ha voluto un attacco di terra, una guerra aperta, non solo una rappresaglia condotta con raid aerei e servizi segreti, lo ha fatto proprio per sradicare Hamas da Gaza. Una vittoria incompleta, con il gruppo islamista ancora saldamente al potere, per Netanyahu sarebbe una sconfitta inaccettabile.

Per Trump, al contrario, la tregua a Gaza è urgente perché è la pre-condizione del suo disegno per il Medio Oriente: l’allargamento degli Accordi di Abramo, cioè la normalizzazione dei rapporti fra Israele e i paesi arabi sunniti. L’Arabia Saudita è il perno di questa operazione, senza il suo consenso non vi sarebbero nuove adesioni. Ma la monarchia saudita ha sempre posto come pre-condizione necessaria la nascita di uno Stato di Palestina riconosciuto da Israele. Questa è una condizione che, soprattutto dopo il pogrom del 7 ottobre, Netanyahu non può più accettare. Dopo aver subito il peggior massacro di civili nella storia dello Stato ebraico indipendente, la popolazione israeliana, a gran maggioranza, respinge la soluzione dei “due popoli in due Stati”. Nella sua visita negli Usa, uno degli obiettivi di Netanyahu è quello di convincere Trump a superare quella formula, nata negli Accordi di Oslo (1993) ed ora sostanzialmente fallita.

Se non sarà più possibile far coesistere due Stati, un Israele e una Palestina che si riconoscono reciprocamente, si cercano soluzioni alternative. Per il dopoguerra, Netanyahu punta ai clan con cui riesce a collaborare a Gaza. Anche durante la guerra ha stretto un’alleanza tattica con la milizia di Abu Shabab, legata indirettamente all’Autorità Palestinese con sospetti legami anche con jihadisti (secondo l'ex ministro Liberman, ora all'opposizione, ma anche secondo Hamas, che ha tutto l’interesse a screditarla, avrebbe avuto legami con l’Isis). Si tratta per ora di soluzioni fragili che indicano la ricerca di una terza via, che non sia né Hamas, né l’Autorità Palestinese, ritenuta ormai totalmente inaffidabile dal governo israeliano.

Dalla Cisgiordania arriva un aiuto insperato a questa alternativa: cinque sceicchi di Hebron hanno firmato una lettera indirizzata al governo di Gerusalemme con cui chiedono la separazione dall’Autorità Palestinese e la nascita di un Emirato che aderisca agli Accordi di Abramo. Lo sceicco Wadi al Jaabari guida questa cordata e scrive testualmente: «L'Emirato di Hebron riconoscerà lo Stato di Israele come Stato nazionale del popolo ebraico e lo Stato di Israele riconoscerà l'Emirato di Hebron come rappresentante dei residenti arabi nel distretto di Hebron». Finora era solo un’ipotesi di scuola, quella di una Palestina costituita da emirati, basati su clan, e non costituita da uno Stato-Partito (Fatah prima, Hamas poi). Ora, in un’epoca di cambiamenti vorticosi nel Medio Oriente, potrebbe anche prender forma.