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PUNTO DI VISTA

Ucraina e Caucaso: Trump consolida la centralità americana

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Il primo incontro diretto di Trump con Putin il 15 agosto e l'accordo di pace tra Armenia e Azerbaijan rappresentano due importanti sviluppi che smentiscono l'idea di un'America isolazionista e nazionalista.

Esteri 11_08_2025

Donald Trump segna due punti molto importanti a favore della sua strategia di politica internazionale. Da un lato, l'annuncio del primo incontro diretto, dopo lunghi e contraddittori preliminari, tra il presidente statunitense e Vladimir Putin, che si terrà venerdì 15 agosto in Alaska, risveglia le speranze di un accordo sulla guerra russo-ucraina, che si erano notevolmente affievolite in questi ultimi mesi al cospetto di una evidente stagnazione del conflitto, degli arroccamenti del Cremlino e delle energiche ritorsioni trumpiane. Dall'altro, la firma dell'accordo di pace tra Armenia e Azerbaijan con la mediazione dell'amministrazione americana pone fine a un conflitto durato più di 30 anni, e apre la strada a sviluppi inediti per il Caucaso e l'Asia centrale.

Sul primo punto, com'è ovvio, è ancora assolutamente prematuro lasciarsi andare a previsioni eccessivamente ottimistiche. Dall'andamento oscillante e farraginoso degli approcci negoziali condotti negli ultimi mesi abbiamo imparato che il dialogo sul futuro dell'Ucraina, e sui futuri rapporti tra Occidente e Russia, è un terreno minato, un estenuante gioco di pazienza e psicologia, un mosaico in cui occorre comporre molti difficili tasselli. E tuttavia va sottolineato il fatto che in uno scenario così complesso Trump sia riuscito, ad appena sette mesi dalla sua entrata in carica, a consolidare una linea diretta di dialogo con Mosca senza rinnegare (nonostante il clamoroso litigio con Volodymyr Zelensky alla Casa Bianca) l'appoggio degli Stati Uniti alla sovranità e sicurezza di Kiev, e ad ottenere un confronto diretto con Putin – negoziatore cautissimo e astuto – a partire da una posizione di mediazione chiara e ferma, che fino a poco tempo fa tutti avrebbero considerato un'utopia.

Se Putin ha finalmente acconsentito ad un vertice faccia faccia con il suo omologo di Washington, per di più in territorio statunitense e non chiudendo del tutto la porta a un successivo colloquio allargato con Zelensky, è evidente che tra lui e Trump è stato già concordato quanto meno uno schema di massima per un possibile accordo definitivo.

Quali potrebbero essere i lineamenti del compromesso? Verosimilmente un periodo di cessate-il-fuoco più o meno lungo, che preparerebbe la concessione a Mosca di pressoché tutti i territori da essa conquistati o rivendicati (e che l'Ucraina mai potrebbe riconquistare con le armi), in cambio dell'accettazione in pratica da parte russa dell'affiliazione occidentale dell'Ucraina. Non ci sarebbe un ingresso formale di Kiev nella NATO, ma si aprirebbe la strada all'ingresso del Paese nell'Unione europea, e di fatto il garante della sua sicurezza sarebbe Washington. 
Il fronte tra l'Alleanza e la residua zona d'influenza "imperiale" di Mosca, nelle intenzioni di Trump, dovrebbe essere stabilizzato da accordi di cooperazione economica, dalla revoca delle sanzioni all'esportazione di gas russo ai Paesi occidentali, dal comune sfruttamento delle materie prime ucraine.

Vedremo presto se questa prospettiva è realistica o troppo ottimistica, e se lo schema trumpiano reggerà ai prevedibili tentativi di destabilizzazione da parte di Kiev e/o dei "volonterosi" europei come Francia, Gran Bretagna e Germania, che in questi mesi non hanno fatto mistero di investire sul rinfocolamento e la continuazione della guerra per conservare un ruolo politico sullo scacchiere internazionale. E che, infatti, hanno subito cominciato un fitto fuoco di sbarramento preventivo, a partire dalle dichiarazioni di Zelensky secondo cui l'Ucraina non accetterà mai la cessione di territori. Che è come dire che la pace non è possibile, perché non si vede quale sia la possibile, realistica alternativa.

Intanto, però, va notato che, se si consolidasse, la via d'uscita proposta da The Donald al conflitto configurerebbe un consolidamento del fronte "atlantico" nel suo complesso, e della presenza politica, militare ed economica degli Stati Uniti in Europa. E costituirebbe dunque una solenne, ulteriore smentita delle accuse al presidente statunitense tanto di essere il "burattino" di Putin, quanto di abbandonare gli alleati europei al loro destino. Sarà chiaro invece, in quel caso, che l'Europa semmai si è "abbandonata" da sola, rinunciando a priori a svolgere un possibile ruolo di mediazione tra Kiev e Mosca e prendendo una posizione bellicistica rigida, che ne sancisce ora l'irrilevanza politica.

Questo ci porta alla seconda importante novità di politica internazionale legata all'azione diplomatica di Trump: l'accordo di pace tra Erevan e Baku. Esso, oltre a chiudere l'annosa e sanguinosa disputa etnico-nazionalistica sull'Artsakh, che è stata uno dei più radicati conflitti dell'era post-sovietica, prevede anche, tra le sue clausole principali, l'apertura definitiva di una direttrice fondamentale per i futuri collegamenti economici ed equilibri politici del Caucaso e dell'Asia centrale: il corridoio di Zangezur, che corre dalla Turchia a Baku lungo l'enclave azera di Nachicevan e il confine tra i due stati. Tale via sarà aperta a tutti i traffici commerciali tra Europa e Oriente, sotto il controllo statunitense.

Essa rappresenta per certi versi quasi l'inverso speculare, pilotato da Occidente, della "Nuova Via della Seta" progettata un decennio fa dalla Cina. L'evoluzione di Armenia e Azerbaijan in "hub" economico-infrastrutturale legato a Washington costituisce un grande smacco geopolitico tanto per Pechino quanto per l'Iran (che infatti ha immediatamente manifestato la sua irritazione), mentre presenta buone opportunità di investimenti e influenza politica per la Turchia di Erdogan, se manterrà una linea di collaborazione con Washington. Soprattutto, essa sarebbe teoricamente leggibile come una sconfitta della Russia, che in passato aveva esercitato una funzione di potenza protettrice di Erevan, e poi aveva svolto un ruolo di mediatrice nel conflitto, per  dover cedere infine a Trump la leadership del processo.

Se, ciò nonostante, Putin accetterà l'accordo di pace pilotato dagli Stati Uniti non sarà, evidentemente, soltanto per la necessità di fare buon viso a cattivo gioco. Il riassetto del Caucaso rientra, infatti, in un quadro molto più ampio, in cui è compresa la stabilizzazione del fronte russo-ucraino, ma anche la soluzione alla "questione" per eccellenza, quella mediorientale e arabo-israeliana, alla quale pure Trump sta lavorando tenacemente dal suo primo mandato, e che passa nelle sue intenzioni per il coronamento degli "Accordi di Abramo".

Putin deve giocoforza mantenere un rapporto con la Cina, che ha puntato a lungo a destabilizzare quell'area per indebolire l'Occidente, ma ha ultimamente allentato i suoi legami con il regime iraniano, che di quella strategia era stato il principale veicolo, e, ora che Teheran e i suoi proxy sono stati messi alle corde dalle offensive israeliana e americana, attende l'eventuale accordo tra Gerusalemme e i Paesi arabi sunniti per rivendicare un ruolo nel Mediterraneo, prevalentemente attraverso la Libia.

In ogni caso, anche il ruolo svolto nella soluzione del conflitto armeno-azero, come la potente spinta verso la pace tra Mosca e Kiev, dimostra che la politica estera di Trump tutto è fuorché isolazionista o ottusamente nazionalista, e che gli Stati Uniti sotto la sua guida stanno esercitando un'autorità crescente, e stabilizzatrice, in tutte le delicate cerniere geopolitiche tra Europa,  Asia e Mediterraneo.