Ucraina, Berlusconi e Meloni due facce della stessa medaglia
Il dibattito sulla guerra in Ucraina è ridotto a un referendum pro o contro Zelensky, dimenticando che in questo modo stiamo correndo verso un tragico allargamento del conflitto. E i criteri della legittima difesa, suggeriti dal catechismo, sono ignorati anche dai cattolici.
La controversia su Volodymyr Zelensky tra il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi e il presidente del Consiglio Giorgia Meloni è esemplare del livello del dibattito politico in Italia (e non solo) sulla guerra in Ucraina. Ridotto a un referendum pro e contro Zelensky, pro o contro Vladimir Putin. Di fronte al viaggio a Kiev programmato dalla Meloni, Berlusconi dice che lui, da presidente del Consiglio non andrebbe a parlare con Zelensky; e la Meloni per tutta risposta stringe i tempi per andare a incontrare Zelensky prima del 24 febbraio, primo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina. A seguire ovviamente la polemica fondata sul «Ma tu da che parte stai?».
Ed è così che continuiamo ad alimentare un dibattito vuoto che avrà come unico esito l’allargamento del conflitto dalle conseguenze fin troppo facilmente prevedibili. Perché in tutti – purtroppo a livello internazionale – è prioritario l’interesse a eliminare o indebolire il nemico del momento o a sostenere l’alleato in funzione di altri nemici. Tutti hanno le loro ragioni da sostenere e i torti da reclamare, e finché si resterà a questo livello continueranno a morire persone e sempre più armamenti occuperanno il teatro della battaglia, destinato ad ampliarsi.
Come abbiamo sempre detto fin dall’inizio del conflitto, la cosa più preoccupante è che non si vede alcun attore internazionale, nessun governo né personalità di spessore, realmente interessato a far cessare questa guerra, almeno a far tacere le armi per verificare la possibilità di una soluzione negoziata. Solo papa Francesco ha alzato la voce per chiedere con forza di fermare il conflitto, proponendosi anche come mediatore, non ricevendo però alcun sostegno. A onor del vero c’è da dire che il Papa sconta anche il fatto di essersi mosso in modo soprattutto “politico” creando diffidenza su entrambi i fronti; resta il fatto che nessun altro ha provato seriamente a trovare una via diplomatica alla crisi.
E bisogna dire che anche nel mondo cattolico ci si è divisi essenzialmente per partito preso: chi, da tempo in guerra contro la corruzione morale dei governi occidentali, ha subito simpatizzato per Putin, improbabile difensore dei valori cristiani; e chi, memore della Guerra fredda e diffidente della Russia, ha immediatamente adottato Zelensky, altrettanto improbabile difensore dei valori occidentali.
Quello che manca veramente è una riflessione seria sulla pace e il desiderio vero di guadagnarla: pace secondo l’accezione cristiana, non come la pensa il mondo. Pace che – come afferma il Catechismo della Chiesa cattolica - si fonda sulla sacralità della vita umana e sulla pace del cuore di ogni uomo. «La pace terrena – leggiamo nel Catechismo – è immagine e frutto della pace di Cristo» (no. 2305). Da questo derivano molte conseguenze pratiche, prima delle quali fare in modo che non scoppino guerre e, quando purtroppo scoppiano, fare in modo che cessino prima possibile: ogni perdita di vita umana è inaccettabile.
Se «una guerra di aggressione è intrinsecamente immorale», anche il diritto-dovere del paese aggredito a difendersi deve rispettare alcuni criteri molto precisi, come ricorda il Catechismo. Vale a dire: per quanto si possano trovare delle attenuanti, che certamente ci sono, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non può essere giustificata in alcun modo. Ma anche nella difesa dell’Ucraina non può valere tutto, né può essere giustificata la sospensione del diritto umanitario. Allora ricordiamo ancora una volta i criteri offerti dal Catechismo, perché anche fra cattolici non vengono mai citati quando si tratta di formulare un giudizio su quanto sta avvenendo: «1. che il danno causato dall'aggressore alla nazione o alla comunità delle nazioni sia durevole, grave e certo; 2. che tutti gli altri mezzi per porvi fine si siano rivelati impraticabili o inefficaci; 3. che ci siano fondate condizioni di successo; 4. che il ricorso alle armi non provochi mali e disordini più gravi del male da eliminare. Nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso la potenza dei moderni mezzi di distruzione» (no. 2309).
Certo, le situazioni di guerra sono sempre complesse e non sempre è facile applicare questi criteri, c’è sempre un giudizio prudenziale di cui tenere conto. Però nel caso dell’Ucraina, soprattutto dopo un anno di guerra, abbiamo già abbondanti indicazioni: se il primo criterio si è realizzato, già sul secondo ci sarebbe molto da discutere. Ma è sul terzo e sul quarto che la questione si fa molto grave.
Intanto il governo di Kiev (così come USA ed Europa) non ha ancora chiarito con precisione cosa debba essere considerato un successo: tornare alle condizioni pre-invasione del 2022 o ai confini precedenti l’annessione alla Crimea nel 2014? L’inasprirsi e l’incancrenirsi del conflitto, spinge l’Ucraina sempre più a considerare la seconda come obiettivo non negoziabile. Il che rende inevitabile che le eventuali «condizioni di successo», data la grande disparità di forze in campo, siano legate al sostegno crescente che l’Ucraina si aspetta dai paesi della NATO. La conseguenza è che continuando questa politica di riarmo, l’allargamento della guerra – anche sul campo – cresce in probabilità. Il che ci porta dritti allo scenario paventato dal quarto criterio, ovvero che «il ricorso alle armi» provochi «mali e disordini più gravi del male da eliminare».
Siamo già bene incamminati su questa strada e potremmo dire che dopo un anno di guerra anche il bilancio per l’Ucraina è negativo dal punto di vista del male e dei disordini. Ma il rischio che il disordine si allarghi a tutta l’Europa è molto concreto. In questa prospettiva appare irresponsabile spacciare per difesa della libertà e dell’Occidente un sostegno al riarmo che presto ci si potrà ritorcere contro. Sarebbe molto più saggio, senza mettere in discussione l’adesione alle alleanze, spendersi per mediare tra le parti prima che sia troppo tardi.