Schegge di vangelo a cura di don Stefano Bimbi
San Colombano a cura di Ermes Dovico

MEDIO ORIENTE

Trump, una politica estera fragorosa ma indecisa

Un raid missilistico sulla Siria, una portaerei in Corea, lo sgancio di una super-bomba MOAB in Afghanistan. Tutto per ottenere un forte impatto mediatico, ma risultati militarmente irrilevanti. Dove vuole andare a parare Trump? Forse vuole mostrare i muscoli per coprire un preoccupante vuoto di strategia.

Esteri 15_04_2017
Donald Trump

Prima sessanta missili da crociera Tomahawk su una base aerea siriana per distruggere 6 vecchi aerei e uccidere altrettanti militari siriani, poi la super bomba MOAB che a dispetto delle sue 8,5 tonnellate di esplosivo e della vasta eco mediatica ha ucciso a quanto pare una novantina di miliziani del Korashan, lo Stato Islamico in Afghanistan. Più o meno lo stesso numero di vittime provocate tra i civili siriani dell’area di Idlib dal supposto gas nervino di Assad.

Se a questi raid aggiungiamo le pesanti pressioni militari sul regime della Corea del Nord appare evidente che Donald Trump continua a fare sentire il peso delle armi americane in giro per il mondo senza però chiarire quali obiettivi persegua.

L’attacco con la super bomba GBU-43B, impiegata por la prima volta contro una base dell’Isis, ha avuto un impatto mediatico imponente rispetto all’effetto tattico e marginale ottenuti sul campo di battaglia. Dotata di un sistema di guida satellitare, la MOAB (Massive Ordnance Air Blast bomb) prontamente ribattezzata in Mother Of All Bombs (“Madre di tutte le bombe”) dai militari che aspettavano di testarla in battaglia, esplode a pochi metri da terra con un potenziale di 11 tonnellate di tritolo ed è quindi idonea a demolire qualunque bersaglio, anche protetto si trovi in superfice nel raggio di qualche centinaio di metri dall’esplosione. Il suo impatto è letale per reparti di fanteria e unità dotate di mezzi leggeri, ma anche per postazioni situate in superficie o scavate nel terreno. Ma anche l’effetto psicologico di questo tipo di ordigno è di grande impatto, colpendo il morale anche dei combattenti sopravvissuti all’esplosione.

La bomba è sganciabile su bersagli ben protetti dalla difesa aerea dai bombardieri strategici B-2, invisibili ai radar, ma solitamente viene rilasciata contro milizie e guerriglieri che non dispongono di contraerea dagli MC-130 Combat Talon, versione per operazioni speciali del cargo tattico C-130. Lo stesso velivolo che per decenni ha lanciato su Vietnam, Iraq e Afghanistan le super-bombe BLU-82 “Daisy Cutter” (tosa margherite), ordigni da quasi 7 tonnellate predecessori delle MOAB. 

Il bombardamento ha colpito i tunnel usati dalle milizie afghane dello Stato Islamico nel distretto di Achin, nella provincia orientale di Nangarhar divenuta da due anni roccaforte dell’Isis che nel Paese asiatico combatte sia il governo di Kabul sia i talebani. Nell’area è in corso un’offensiva afghana nota come Operazione Hamza sostenuta dalle forze aeree americane, ma è possibile che il raid ad alto potenziale di Trump avesse un obiettivo più politico che militare. Del resto talebani e Isis sono abituati a subire pesanti bombardamenti aerei e non sarà certo una MOAB a indurli alla resa mentre Trump sembra aver voluto trasmettere un nuovo messaggio a Mosca ribadendo che “lo sceriffo americano è tornato”. Non può sfuggire infatti che ieri mattina, poche ore dopo il raid aereo a Nangarhar, si è aperta a Mosca la Conferenza di pace voluta dal Cremlino per cercare di ricomporre il conflitto, ora che l’Occidente sembra disinteressarsene.

Alla Conferenza di pace indetta dal governo russo partecipano l’Afghanistan e altri 11 Paesi della regione ma non gli Stati Uniti che addirittura la osteggiano temendo che, come in Siria, Mosca possa assumere anche a Kabul una leadership negoziale. Il disimpegno occidentale da Kabul ha del resto indotto da tempo Mosca a temere che una vittoria talebana in Afghanistan possa dirottare la penetrazione jihadista verso la Russia e le repubbliche asiatiche ex sovietiche.

Sul “fronte interno" inoltre, la MOAB ha permesso a Trump di precisare di aver fatto più lui nelle ultime settimane che la precedente amministrazione in otto anni. Una frase che dimostra il complesso di inferiorità di cui sembra soffrire Trump nei confronti di Obama il quale, pur senza usare super-bombe, ha condotto guerre blande fatta di raid e droni dallo scarso impatto strategico. Una politica che Trump sembra voler paradossalmente emulare mostrando muscoli che non fanno vincere le guerre ma evidenziano un preoccupante vuoto strategico per un presidente che avrebbe dovuto imprimere una svolta alla politica estera di Washington.