Trump si "modera" e nomina Pence suo vice
Donald J. Trump ha scelto il candidato che presenterà agli elettori per la vicepresidenza: è Michael Pence, governatore dell’Indiana, indicato con lieve anticipo sulla Convenzione nazionale del Partito Repubblicano in programma a Cleveland dal 18 al 21 luglio che avrà il compito di ufficializzare il ticket.
Donald J. Trump ha scelto il candidato che presenterà agli elettori per la vicepresidenza: è Michael Pence, governatore dell’Indiana, indicato con lieve anticipo sulla Convenzione nazionale del Partito Repubblicano in programma a Cleveland dal 18 al 21 luglio che avrà il compito di ufficializzare il tandem (o meglio il ticket, come lo chiamano negli Stati Uniti). Trump aveva programmato di dare l’annuncio venerdì 15 mattina, ma la conferenza stampa prevista è stata procrastinata a causa dei luttuosi avvenimenti di Nizza.
Esattamente come hanno fatto Mitt Romney nel 2012 e John McCain nel 2008 scegliendo rispettivamente Paul Ryan e Sarah Palin per la vicepresidenza, il milionario newyorkese ha puntato su Pence, storicamente legato al movimento dei “Tea Party”, per cercare di tamponare l’emorragia che l’8 novembre potrebbe costargli l’elezione. Quel che infatti ancora e sempre manca a Trump è l’appoggio di quella parte, consistente, del mondo conservatore che si ostina ad avversarlo e che quindi potrebbe vedere in una personalità gradita un segno di “buona disposizione”.
Oltre a Pence, Trump aveva preso in considerazione anche i nomi del governatore del New Jersey Chris Christie e dell’ex presidente della Camera federale Newt Gingrich. Ma Christie è un ex delle primarie 2016 che nella gara ha totalizzato consensi da prefisso telefonico ritirandosi subito, cui molti conservatori non hanno perdonato l’embrassons-nous con Barack Obama dopo l’uragano Sandy nell’ottobre 2012 giudicato il colpo di grazia alle aspirazioni presidenziali di Romney (clicca qui). E Gingrich è una vecchia conoscenza: divenne una star della politica americana nel 1994 quando inventò il “Contract with America” e con quello capitanò la storica vittoria che portò il Partito Repubblicano a dominare il Congresso come non succedeva da 40 anni. Se per la vicepresidenza avesse scelto lui, Trump avrebbe depotenziato un’altra sua arma tattica: l’idea di essere il “nuovo” che dall’“esterno” marcia contro l’establishment.
Nominando Pence, invece, Trump cerca la quadratura del cerchio. Da molti punti di vista, infatti, i due sono all’opposto. Al ribaltamento dei tavoli Pence preferisce la via delle riforme legislative, è assertivo senza bisogno di sbraitare, è antiabortista convinto e altrettanto convintamente ostile all’ideologia Lgbt come invece Trump si è scoperto essere solo tardi e alquanto maldestramente. Sul piano economico segue la classica ricetta Repubblicana fatta di dimagrimento dello Stato federale, riduzione di tasse e abbattimento della spesa pubblica che però non è esattamente la medesima idea di “capitalismo consociativo” cara, tra un fallimento e l’altro, a Trump. Sull’immigrazione preferisce il rigore alle facili iperboli. E in politica estera è un ferreo sostenitore della guerra al terrorismo senza bisogno di apparire come il Dottor Stranamore.
Un buon conservatore, insomma, che assomma in sé le caratteristiche di quelle due “famiglie” che negli Stati Uniti sono chiamate fiscal conservative (gli “antistatalisti”, per intenderci) e dall’altro social conservative (attenzione ai “princìpi non negoziabili”). Il che indica, per l’ennesima volta, una verità decisiva. Trump è certamente l’ultimo a volerlo ammettere, ma anche lui ha bisogno del “movimento”, dei conservatori, persino del Partito Repubblicano. Il suo ingresso in politica è sembrato suonare la tromba del giudizio per il Grand Old Party (Gop, l’altro nome del Partito Repubblicano), e la sua funambolica corsa alla Casa Bianca, tutta dedita a vellicare la pancia dell’elettorato (o del popolo-bue), è parsa il superamento dell’ideale conservatore. Ma non è così.
Dopo avere spaccato clamorosamente il partito, e avere vinto le primarie con una percentuale di consensi mediamente non stellare, ora Trump si rende conto che tutto questo serve sì a sfasciare l’esistente, ma che non basta, né serve, per costruire una vittoria. Si è appellato genericamente agli “americani”, ha evitato la gara (giudicata obsoleta) a chi è più conservatore di chi, ha sostituito la visione “Dio, patria e famiglia” con un populismo capace di affollare i comizi, ma al momento decisivo (quello in cui la sua galoppata istrionica deve trasformarsi in una proposta politica di governo) non può fare altro che rivolgersi al “vecchio” movimento conservatore, al “vecchio” ideale conservatore, persino a parte del “vecchio” mondo Repubblicano.
Anche Trump tocca con mano il fatto che da mezzo secolo nessun Repubblicano ha mai ottenuto successi politici seri senza studiare un’alleanza strategica con il movimento conservatore e, oggi, con quelle parte (ampiamente maggioritaria) del Partito Repubblicano che con esso ha in essere legami strutturali. Non è detto che l’alleanza con Pence gli porti i voti del movimento che gli servono (con McCain e Romney non funzionò), ma una cosa è già certa. Partito con il progetto di rottamare il Gop e superare il conservatorismo, Trump è invece arrivato a Canossa.