Trump non è Reagan, ma non se ne è accorto
Trump non può in alcun modo essere paragonato a Reagan. Ma nel suo discorso dello Stato dell'Unione ci ha provato: toni e argomenti reaganiani, come non si sentivano dagli anni 80. Riarmo massiccio, taglio delle tasse, cancellazione dell'Obamacare sono al centro della sua agenda. Che ha spiazzato tutti, a partire dal presunto "amico" Putin.
Era fortemente atteso. Il primo discorso del presidente degli Stati Uniti Donald J. Trump alle Camere riunite, martedì 28 febbraio era un atto dovuto, ma pure è venuto caricandosi di forti aspettative, nessuna delle quali è stata delusa. Tecnicamente non è stato un Discorso sullo Stato dell’Unione, ma nella sostanza ne è stato l’equivalente, e in questa veste è stato molte cose assieme.
Anzitutto è stato il primo vero collo di bottiglia della “coabitazione” tra un presidente che è il presidente più improbabile di tutta la storia americana e una maggioranza congressuale Repubblicana che al suo fianco ha scelto di schierarsi un po’ per amore e un po’ per forza, e che quindi, se da un lato si prepara a inghiottire molto, al contempo non è però essere disposta a trangugiare tutto. Secondo, è stato il varco a cui i Repubblicani, eletti al Congresso l’8 novembre assieme al presidente sul piano cronologico ma non sempre su quello politico, attendevano il nemico-amico. Terzo, è stato l’occasione che Trump attendeva per mostrare al Paese, quindi non solo ai Repubblicani e non solo al proprio elettorato, che gli slogan possono e debbono essere tradotti in politica attiva. L’asso calato dal presidente per dominare tutte queste sfide è stato l’accreditarsi – inevitabilmente a modo suo – come il principe di una nuova narrazione di tipo reaganiano.
Il paragone fra Trump e Ronald Reagan (1911-2004) non è certo nuovo. È stato usato, spesso abusato e di solito usato come un randello: o per sbeffeggiare lo “sciagurato” Trump paragonandolo all’inarrivabile Reagan o viceversa per dare all’impareggiabile Reagan del “volgare” Trump. Comunque sia, è un paragone falso. Trump non è Reagan. Trump alla Casa Bianca non ha il vissuto politico che Reagan ebbe prim’ancora di arrivare alla Casa Bianca. Trump non ha nemmeno la statura morale di Reagan così come non ne ha il cordone ombelicale con il mondo conservatore, la visione strategica maturata nel ralliement del mondo anti-liberal dopo la “sconfitta vittoriosa” di Barry M. Goldwater (1909-1998) nel 1964, il contesto internazionale che ne ha sottoposto a stress-test ma anche nobilitato l’agire e l’agito, la forza e la carica umane. Trump non ha tutto questo di Reagan, ma forse Trump non lo sa e quindi ci crede comunque. Ecco cosa davvero significa il suo proporsi per una nuova narrazione di tipo reaganiano: più quel che Trump percepisce di Trump che non la realtà dei fatti; ma finché Trump non se ne accorgerà, la cosa potrebbe funzionare.
Del resto, sempre, più i Repubblicani cercano di distanziarsi dal “modello Reagan” e più il “modello Reagan” è quello a cui, comunque, finiscono per riferirsi se il loro cuore palpita a destra o se in uno dei molti modi possibili sono conservatori (vale anche per chi davvero conservatore non è, ma, in uno dei molti modi possibili, sceglie di giocare in quella zona del campo). Bene inteso, Reagan ne è innocente, ma non di meno tutto questo è vero e constatabile. Certo, forse Reagan si rivolta nella tomba al solo sentirsi paragonare a Trump, ma questo è un altro paio di maniche.
Ebbene, della voglia di narrazione reaganiana di Trump il suo primo discorso al Congresso è stato il manifesto. Determinazione e affabilità, toni secchi ma non duri, risolutezza e semplicità: atteggiamenti che Trump ha coltivato (hanno già fatto il giro del mondo le immagini di lui che prova e riprova a voce alta il discorso nella limousine che lo porta in Campidoglio), li ha coltivati immaginiamo con quale sforzo, ma martedì sera li ha sfoggiati alla perfezione. Drastica riduzione delle tasse, riarmo militare draconiano, lotta senza quartiere allo statalismo attraverso la cancellazione della riforma sanitaria voluta da Barack Obama. Tutto in linea con premesse o promesse, ma stavolta detto meglio: non l’urlo strozzato del pirata all’arrembaggio, ma una cultura di governo assodata.
Il taglio delle tasse riguarderà soprattutto le imprese. Le imposte sul reddito delle società, infatti (praticamente la nostra Ires), negli Stati Uniti ammontano al 39,6% (35% di aliquota federale, più una media di circa il 4% di aliquote statali), le più alte dei Paesi dell’OCSE di un 15% di media; per questo Trump propose di abbassarle proprio al 15%. Se anche solo le lascasse a un livello doppio di quanto promesso, Trump passerò alla storia come Reagan quando firmò il maggior taglio fiscale della storia americana, effettivo dal 13 agosto 1981. È così che rifarebbe grandi gli Stati Uniti.
L’incremento delle spese militari annunciato è il più ingente dalla fine della Seconda guerra mondiale: 54 miliardi di dollari. Una follia? Quando Reagan decretò l’escalation militare, tutti gli diedero del pazzo guerrafondaio. Ma fu la sua decisione di alzare la posta in gioco alle stelle come James Bond in Casino Royale a far implodere il sistema sovietico, travolgendolo. Oggi l’URSS non c’è più, ma Trump non ha alcuna intenzione di essere lo zimbello del mondo come lo è stato Barack Obama e come Reagan punta a sbancare tutti (la genuina sorpresa con cui Mosca ha reagito all’annunciato aumento delle spese militari fa peraltro giustizia di tutto il bla bla sul Trump filoputiniano).
E il ripudio dell’“Obamacare” è quello che i Repubblicani del Congresso la Destra movimentista vogliono sentirsi ripetere: è una misura importante in sé, poiché cancella una riforma maldestra e maliziosa, ed è importante come simbolo, giacché è stato quello il marchio di un’era detestata. Al suo primo discorso inaugurale, il 20 gennaio 1981, Reagan disse: «Nella crisi attuale, il governo non è la soluzione al nostro problema; il problema è il governo». È così che la narrazione continua.
In più rispetto all’imitatio reganiana (allora non era un problema grave come oggi), Trump ci ha messo il tema dell’immigrazione, trattato certo con secchezza ma senza inutili irrigidimenti.
Ciò che sia Trump sia Reagan hanno cercato assumendo i poteri è l’effetto shock e l’impulso booster: la doccia che raggela gli avversari ma scalda gli alleati finalmente autorizzati a svincolare l’entusiasmo dal guinzaglio. Reagan ci riuscì, e a quel che sembra pare esserci riuscito pure Trump. Al netto delle partigianerie impenitenti, il suo discorso di martedì è infatti piaciuto. Al netto di quello che gli avversari non potranno mai concedergli, nessuno può però negare che il suo primo discorso solenne sia stato sul serio, finalmente presidenziale. Forse l’era Trump è cominciata davvero.