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Trump e Meloni, ammissioni progressiste senza comprensione

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I media progressisti Time e Politico devono ammettere il potere esercitato da Trump e Meloni nel corso del 2024, ma non comprendono le ragioni effettive della loro affermazione.  

Editoriali 14_12_2024

Anche i media progressisti ogni tanto vengono assaliti dalla realtà, e devono, almeno in parte e a malincuore, rinunciare ai loro rigidi stereotipi ideologici per cercare di fare seriamente i conti con le tendenze che stanno rimodellando la storia della politica occidentale. Almeno quando la realtà è così coriacea e fa tanto male, quando ci si schianta contro di essa, da lasciare segni indelebili. 

Così è successo che due testate universalmente riconosciute come espressione di una visione del mondo liberal, cioè Time e Politico, hanno premiato come leader più influenti del 2024, rispettivamente nel mondo e in Europa, due esponenti politici della destra da loro innumerevoli volte bollata come "populista" o "estrema". Time ha infatti designato Donald Trump come person of the year, e Politico nella sua class of 2025 ha indicato Giorgia Meloni come «la persona più potente in Europa», ponendola in cima a una lista dove figurano, più in basso, Ursula von der Leyen, Vladimir Putin, Donald Tusk e molti altri. 

Ora, va detto che al di là di ogni valutazione e preferenza il titolo assegnato da Time al nuovo presidente americano, ritornato in sella clamorosamente per il suo secondo mandato dopo la parentesi Biden contro la vice di quest'ultimo Kamala Harris, era oggettivamente inevitabile. In determinati momenti storici i protagonisti si impongono sulle seconde linee e sulle comparse senza discussioni. E certo la battaglia di Trump, la linea politica assolutamente originale che egli ha imposto al Partito repubblicano statunitense e che ha guadagnato il consenso nettissimo degli elettori, l'autorevolezza con cui egli si colloca oggi ancora al centro degli equilibri mondiali in un momento di grandi conflittualità e lacerazioni gli hanno guadagnato sul campo la qualifica di "uomo dell'anno", né si vede all'orizzonte al momento un leader che possa aspirare a una maggiore influenza. Anche, dunque, dal punto di vista di chi lo ha sempre aspramente osteggiato non si poteva non riconoscere, come fa ora Time attraverso il suo direttore Sam Jacobs, che «viviamo nell'era di Trump», e che il tycoon «ha cambiato radicalmente la politica americana», ha allargato significativamente la base elettorale repubblicana, ha imposto con forza la sua agenda. 

Soprattutto, Time ammette che Trump incarna oggi al massimo grado «una risorgenza del populismo, una sempre maggiore avversione verso le istituzioni che hanno definito lo scorso secolo, una erosione della fiduciosa convinzione che i valori progressisti porteranno verso una vita migliore per la maggior parte delle persone». 

Naturalmente questa ammissione, che il direttore del settimanale condivide con la maggior parte di politici, intellettuali, giornalisti della sinistra americana ed europea, è una lama a doppio taglio. Mentre lo incorona protagonista indiscusso, Time cerca di dipingere ancora il trumpismo come un fenomeno politico che presenta rischi strutturali per l'Occidente democratico, e il suo leader come un potenziale tiranno. E rappresenta il presidente eletto come una personalità dai tratti autoritari che vuole brutalmente espellere migranti, minacciare la libera stampa, consumare vendette sui suoi avversari. Ma, pur gettando le usuali ombre sinistre su Trump, i portavoce più influenti della cultura liberal non possono negare che il suo successo è maturato senza forzature attraverso il consenso popolare secondo prassi e procedure istituzionali della maggiore democrazia del mondo; e, ancor più, che oggi nel campo Dem non esiste nessuna leadership e programma alternativo lontanamente paragonabile, per organicità, coerenza e popolarità, a quello trumpiano. 

In quanto all'uomo in procinto di sedere alla Casa Bianca, è da escludere che egli provi alcun complesso di inferiorità rispetto alle élites progressiste o che tenti in alcun modo di ingraziarsele. La sua vittoria si deve, anzi, proprio alla capacità, apprezzata in sommo grado da gran parte dell'elettorato, di distinguersi da quelle élites e di contrapporre il senso comune alle loro ideologie senza compromessi, sebbene con un pragmatico realismo troppo spesso non riconosciuto dai suoi avversari, impegnati a costruire la sua "leggenda nera".

Ancor più significativo, se possibile, è il titolo di "persona più potente d'Europa" attribuito a Giorgia Meloni da Politico. Soprattutto perché esso era meno prevedibile, e, più che su un indiscutibile supremazia, deve fondarsi su un giudizio politico sintetico rispetto a una situazione molto più complessa, come quella europea e dei rapporti transatlantici. In sintesi, la rivista riconosce alla leader del centrodestra e presidente del Consiglio italiana la capacità di superare il punto di partenza su cui aveva costruito la propria personalità politica – quella, ai suoi occhi, della destra «ultranazionalista» ed euroscettica – per muoversi con efficacia verso posizioni moderate, fare da mediatrice tra la «maggioranza Ursula» e le forze sovraniste in ascesa, porsi al centro di una rete di relazioni che oggi, con il ritorno alla Casa Bianca di Trump, trovano il loro massimo punto di forza nell'asse costruito con Elon Musk. 

Anche in questo caso il ritratto è denso di chiaroscuri, e non certo benevolo. Politico descrive sostanzialmente la Meloni come una tessitrice molto abile a nascondere, dietro posizioni opportunistiche, la persistenza di una sostanza politica fortemente illiberale. A sostegno di questa tesi la rivista elenca una serie di presunti regressi autoritari avvenuti in Italia sotto il suo governo, descritti con la stessa retorica allarmistica riservata solitamente all'Ungheria di Orbán: minacce alla libertà di informazione, attentati ai "diritti" Lgbt, propositi di irregimentazione della magistratura, e simili. 

Anche in questo caso, come in quello del giudizio di Time su Trump, si ammette che la destra "populista" incarna tendenze fortemente proprie della presente epoca, ma se ne legge il successo non come un'espressione fisiologica della dialettica liberaldemocratica, bensì come il segno di una sua patologia strutturale, di una crisi che potrebbe rivelarsi fatale. Una visione da cui traspare chiaramente l'auspicio che il blocco dell'establishment di centro-sinistra dell'Ue possa ancora controbilanciare, rimanendo compatto, la sua influenza. 

Manca ancora, insomma, totalmente in questa analisi la volontà di comprendere le ragioni effettive dell'affermazione di quelle destre di cui Meloni è dipinta come la più pragmatica espressione. Di comprendere, insomma, che se un numero sempre crescente di elettori europei vota per i "populisti" perché è esasperato dall'immigrazione selvaggia, dal "green deal" che distrugge l'industria e il lavoro, dalla tirannia woke e Lgbt, ciò non avviene per colpa dei diabolici e antidemocratici "populisti", ma per ragioni oggettive di insostenibilità di quelle politiche: fondate, esse sì, su un estremismo ideologico illiberale, che oggi è proprio delle forze politiche e culturali liberal.