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RICONOSCIUTO IL MARTIRIO

Triangolo rosso, don Lenzini sarà il primo sacerdote beato

La Congregazione delle Cause dei Santi ha promulgato ieri il decreto che riconosce il martirio «in odio alla Fede» di don Luigi Lenzini, ucciso da militanti comunisti la notte tra il 20 e il 21 luglio 1945. Un destino comune a quello del seminarista e beato Rolando Rivi e di un’altra ventina di religiosi e sacerdoti vittime nella rossa Emilia tra il ’44 e il ’46.

Ecclesia 29_10_2020

Dei circa cento omicidi di religiosi commessi tra il 1944 e il 1946 da partigiani o ex partigiani comunisti, ben ventidue, più di un quinto, furono commessi in Emilia-Romagna. Qui più che altrove l’egemonia comunista sulla Resistenza impresse allo scontro una radicalità rivoluzionaria che ebbe come frequente bersaglio anche nemici di classe e sacerdoti, simboli di quell’ordine “borghese” che doveva essere abbattuto insieme al fascismo e al nazismo.

La beatificazione nel 2013 del seminarista Rolando Rivi e quella prossima del parroco di Crocette di Pavullo nel Frignano, don Luigi Lenzini (1881-1945) - di cui la Congregazione delle Cause dei Santi ha promulgato ieri il decreto che riconosce il martirio «in odio alla Fede», dopo l'autorizzazione ricevuta il giorno prima da papa Francesco -, esprimono il riconoscimento della Chiesa cattolica per il loro personale martirio, ma riassumono anche simbolicamente il sacrificio dei tanti altri uomini di Chiesa che caddero vittime in quegli anni di una violenza omicida della stessa natura.

Rolando Rivi e don Luigi Lenzini furono ambedue soppressi sull’Appennino modenese, a distanza di poche decine di chilometri l’uno dall’altro, e condividono l’iter sorprendentemente rapido con cui sono stati elevati dalla Chiesa all’onore degli altari: dal 2005 al 2013 Rivi e dal 2011 al 2020 don Lenzini. Accanto alle analogie, esistono differenze riguardo alla personalità delle vittime e alle circostanze della loro uccisione: al momento della morte, Rivi era un seminarista di appena 14 anni, don Lenzini un parroco sessantaquattrenne; il primo venne fucilato nelle ultime settimane di guerra con il pretesto di essere una spia; il secondo venne sommariamente ucciso mesi dopo la fine del conflitto in conseguenza delle sue prediche in cui criticava l’ateismo comunista; infine, gli assassini del seminarista, rei confessi, furono condannati e scontarono parte della pena, mentre i sospettati del delitto del parroco vennero assolti per insufficienza di prove.

Nella notte tra il 20 e 21 luglio 1945, un gruppo di sconosciuti bussò alla canonica della chiesa di Crocette di Pavullo, una piccola frazione a pochi chilometri dal capoluogo della montagna modenese, in cui dal 1940 era parroco don Lenzini. Parlando in dialetto locale chiesero che il parroco venisse a prestare aiuto a un ammalato. Don Lenzini fece riferire alla perpetua di aver visitato l’uomo la sera stessa, promettendo di tornare il giorno dopo. Fallito l’espediente di mettere facilmente le mani sul parroco, i malintenzionati, dopo aver aperto il fuoco contro le finestre della canonica, penetrarono all’interno e inseguirono l’anziano prete fino al campanile dove nel frattempo aveva tentato inutilmente di rifugiarsi per chiedere aiuto suonando le campane a martello.

Nessuna delle numerose persone svegliate dagli spari e dal suono delle campane volle, o poté, prestare soccorso al sacerdote. Il gruppo di malviventi si allontanò quindi nella notte trascinando seco don Lenzini. Per qualche giorno il destino del prete rimase sconosciuto, fino a quando, a distanza di poche centinaia di metri dalla canonica, nei pressi di una vigna, il suo cadavere fu rinvenuto semisepolto sotto un palmo di terra: come accertò il medico legale era stato ucciso con un solo colpo di pistola alla nuca la notte stessa del sequestro.

Come in molti altri casi analoghi, le indagini compiute nell’immediatezza dei fatti dai carabinieri furono ostacolate dalla reticenza dei testimoni. Solo nel 1947 si giunse a fare luce sul movente del delitto e sul contesto nel quale era maturato: il parroco era stato preso di mira da personaggi che ruotavano intorno all’ambiente della polizia partigiana e del Pci di Pavullo, a causa delle sue prediche di contenuto anticomunista. Un testimone riferì di aver sentito nella sede del Pci di Pavullo che don Lenzini “andava tolto dalla spesa” perché aveva detto che “si arriverà un giorno che le donne non potranno più battezzare i loro bambini”.

Minacce e avvertimenti non avevano raggiunto lo scopo di farlo tacere e alcuni facinorosi avevano deciso di passare alle vie di fatto. A corollario delle indagini finirono in carcere con l’accusa di essere tra gli esecutori o i mandanti una decina di imputati, anche se nei loro rapporti i carabinieri scrissero che si era trattato di un delitto ambientale, corale, a cui avevano partecipato nelle sue varie fasi molte più persone. Tra costoro, anche un ex seminarista, Bruno Covili, agente della polizia partigiana di Pavullo, che in tempo di guerra don Lenzini aveva beneficato, come molti altri giovani parrocchiani, nascondendolo durante i rastrellamenti tedeschi. Un altro dei principali sospettati, Savino Cantergiani, era stato un garzone del prete e per questo conosceva bene le sue abitudini e la disposizione della canonica.

A carico degli arrestati, alcuni dei quali si accusavano l’un l’altro, si erano accumulati indizi e circostanze di fatto, ma non prove decisive. I testimoni per tutta la durata delle indagini continuarono a mostrarsi impauriti e reticenti, a cominciare dalla perpetua Angiolina Flori, che si contraddisse più volte sul riconoscimento di Cantergiani come uno degli assalitori. Nel 1949, quando finalmente si aprì il processo presso la Corte d’Assise di Modena, non apparve quindi una sorpresa l’assoluzione degli imputati per insufficienza di prove, “con un dubbio - disse il pubblico ministero al dibattimento - che raggiunge il 99 per cento della certezza”.

* Storico della Resistenza