Trent’anni di Internet, ma l’Italia è migliorata?
Era il 30 aprile 1986 quando Stefano Trumpy, col Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico del Cnr di cui era direttore, portò per la prima volta internet in Italia. Fu il giorno della prima connessione alla rete Arpanet da un nodo italiano. L’Italia fu la quarta nazione europea a connettersi a Internet.
Era il 30 aprile 1986 quando Stefano Trumpy, col Centro Nazionale Universitario di Calcolo Elettronico del Cnr di cui era direttore, portò per la prima volta internet in Italia. Fu il giorno della prima connessione alla rete Arpanet da un nodo italiano. L’Italia fu la quarta nazione europea a connettersi a internet.
Un semplice segnale (“ok”) confermava la connessione tra Pisa e un computer in America. Nel 1991 fecero la loro comparsa le tre lettere “www”, grazie a ciò che accadde al Cern di Ginevra, dove Tim Berners-Lee accese un server, che è ancora oggi in funzione, e diede al mondo il primo sito web. Da allora tante le novità, dalle e-mail alle pagine web, dai forum alle chat, dai blog ai social network, dall’e-commerce al cloud. E chissà cos’altro ci riserverà il futuro, già quello prossimo, considerati i ritmi galoppanti dell’innovazione tecnologica.
Internet ci ha cambiato la vita, le abitudini, i comportamenti. Internet non è solo uno strumento, è un ambiente in cui viviamo, lavoriamo, comunichiamo, interagiamo, compiamo operazioni di ogni tipo. Oggi noi siamo cittadini digitali, o “digitaliani”, come dice qualcuno. Ma dove ci hanno portato questi trent’anni di sviluppo tecnologico? Internet è stata definita la quarta rivoluzione industriale e ha prodotto un cambiamento epocale, dagli esiti ancora incerti. L’”internet delle cose” è l’ulteriore frontiera che già s’intravvede all’orizzonte. Ma le potenzialità del web sono ancora inespresse in Italia,considerato che siamo al quarantanovesimo posto nel mondo per quanto riguarda le connessioni a banda larga.
Il presidente del Consiglio, in occasione di questa ricorrenza, ha rilanciato la sfida: colmare il divario digitale, assicurare a tutti gli italiani 30 megabyte, con livelli di eccellenza fino a 100 megabyte. Ma si tratta di proclami già sentiti dai precedenti governi. Poi che cosa non ha funzionato? Banalmente, si è sempre ritenuto, in parte a ragione, che non ci fossero tutti questi soldi per potenziare le infrastrutture di Rete. E poi le imprese del settore, vista la costante riduzione dei margini di guadagno sui collegamenti in Rete, sempre meno costosi per gli utenti, hanno da tempo rinunciato a investire in quelle infrastrutture.
La percezione del valore strategico di tali investimenti da parte della classe politica è sempre stata bassa. Mai nessun governo degli ultimi anni ha messo al primo posto interventi di questo tipo, scavalcati, nella gerarchia delle priorità, da emergenze apparentemente più concrete. Eppure la banda larga e quella ultralarga sarebbero volani impareggiabili di sviluppo e crescita, economica e sociale. La sfida, quindi, è soprattutto culturale. Diffondere la cultura della Rete fin dalle scuole dell’obbligo, dimostrando che con internet si possono combattere le disuguaglianze, attivare meccanismi di condivisione delle opportunità, ragionare in una logica orizzontale anziché verticale.
Facebook e Google, che pure sono nell’occhio del ciclone per quanto riguarda le violazioni dei diritti degli utenti, privacy in primis, e la loro voracità rispetto alle risorse pubblicitarie, vogliono portare internet nei Paesi in via di sviluppo, perché l’accesso alla Rete genererebbe sviluppo anche in quelle terre, contrassegnate da devastanti emergenze materiali e morali. Ovviamente, tutto questo non deve mai farci perdere di vista i rischi di internet, che da una parte ci libera e dall’altro ci imprigiona, da una parte alimenta circuiti virtuosi di libertà, dall’altro dispensa nuove schiavitù, più o meno consapevoli.
La difficoltà di tutelare nella Rete diritti che nella vita fisica di tutti i giorni è relativamente più facile proteggere sono sotto gli occhi di tutti. É il carattere volatile della vita virtuale, che mette a rischio il diritto all’identità, quello alla privacy, l’onore, l’immagine, tutti quei diritti della personalità che credevamo di poter blindare nel cofanetto delle nostre certezze esistenziali. Senza dimenticare i “big data” e l’uso che dei nostri dati personali e sensibili fanno i colossi della Rete, per finalità commerciali e, secondo alcuni, addirittura di spionaggio per conto terzi. Con il cloud, ad esempio, quei dati diventano proprietà di chi fornisce i servizi e finiscono su server ubicati chissà dove. Con ricadute inevitabili sulla sovranità dei singoli Stati.
Ma oggi è tempo di celebrazioni e non di allarmismi. Trent’anni non sono pochi e di progressi le tecnologie della Rete ne hanno compiuti. Noi ne abbiamo beneficiato e continueremo a beneficiarne. Ma questa innovazione sarà davvero salutare se manterrà al centro la persona, la sua integrità, il suo benessere fisico e spirituale, la sua crescita. In caso contrario diventerebbe distruttiva alienazione.