Tre chiavi per vivere il XXI secolo
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Le parole profetiche di Calvino in un'intervista del 1981: prevede che verranno create città per vecchi e che i bambini vivranno sempre più lo stesso problema degli anziani, saranno anche loro sempre più lasciati a se stessi.
È il 27 maggio 1981. Italo Calvino prende parte alla trasmissione televisiva di Rai 3 condotta da Alberto Sinigaglia e intitolata Vent’anni al Duemila. Il suo intervento che prende il nome Italo Calvino: le età dell’uomo rappresenta il suo testamento spirituale. Calvino sottolinea come uno degli aspetti che più caratterizzino una società sia il rapporto tra gli anziani e i giovani: «In altre epoche il contrasto tra vecchi e giovani era già marcato. […] Oggi il vecchio non è da rimuovere, è già rimosso. Oggi si tende a separare i vecchi dal resto della società».
I vecchi sono messi da parte in una separazione che corrisponde «a una perdita di rapporti, a una perdita di significato». Questa rimozione degli anziani è causa di un’interruzione della trasmissione di esperienza.
Nella nostra epoca l’uomo non accumula più esperienza e per questa ragione ha ben poco da trasmettere e da tramandare. Calvino stesso ammette di essere riuscito «a mettere da parte ben poco. La positività dell’esperienza è quanto di più difficile da trasmettere ci sia». Calvino è convinto che ciò che possa avvicinare maggiormente le generazioni sia il confronto sugli errori commessi, anche se la trasmissione degli sbagli compiuti non è un’esperienza che possa avvenire, perché quando si cerca di trasmetterla «diventa retorica».
Più di quarant’anni fa Calvino appare per certi versi profetico: prevede che verranno create città per vecchi (grandi edifici in cui risiederanno) e che i bambini vivranno sempre più lo stesso problema degli anziani, saranno anche loro sempre più lasciati a se stessi. «I gruppi di bambini da custodire cresceranno sempre di più». Le città diventeranno multietniche. Ci sarà la tendenza unificatrice della televisione che porterà ad un linguaggio standardizzato. La musica diventerà sempre più un modo di stare insieme più che un mezzo di comunicazione.
Il maggiore augurio che Calvino fa all’umanità è che conservi la capacità «di vedere la bellezza, di scoprirla, di recuperarla. […] L’importante è il processo per arrivare a vedere la bellezza vera». Il mondo contemporaneo corre, invece, il rischio di uccidere la bellezza, trattandola come inutile e non indispensabile.
La modernità, che celebra il nichilismo travestito di relativismo, che esalta la libertà assoluta della ricerca scientifica e tecnologica, scevra di qualsiasi riferimento morale e valoriale assoluto, appare sviluppata contro il valore della bellezza e su queste basi promuove propri principi.
Riflettere sulla bellezza vuol dire impegnarsi coraggiosamente per un’altra modernità che non venga consegnata all’arbitrio scientifico e alla dissoluzione estetica. L’imperversare del brutto e del cattivo gusto nell’epoca odierna non sono semplici opzioni soggettive, ma la cifra di un’epoca che degrada nel relativismo.
La bellezza salverà il mondo, diceva il principe Miskin nell’Idiota di Dostoevskij. Calvino avverte però che la bellezza corre il pericolo di dover essere salvata da questo mondo! L’educazione estetica deve tornare ad essere centrale nella formazione della persona. Se innegabili sono le carenze dell’educazione nel nostro tempo, allo stesso tempo inesauribile è la ricchezza di una tradizione a cui genitori e insegnanti possono attingere per continuare a testimoniare il significato della bellezza alle giovani generazioni, salvandole dal nichilismo.
Quali sono le tre chiavi fondamentali per affrontare il nostro secolo (Calvino allude al Duemila)?
In primo luogo imparare a memoria tante poesie, così da conservare nella mente e nel cuore la bellezza «da bambini, da giovani, anche da vecchi», perché le poesie fanno compagnia e l’esercizio della memoria è molto importante nella crescita.
In secondo luogo dobbiamo puntare «sulle cose difficili, eseguite alla perfezione, le cose che richiedono sforzo». Bisogna diffidare «della facilità, della faciloneria, del fare tanto per fare». Al contempo, è importante sconfiggere l’astrattezza del linguaggio «che ci viene imposta ormai da tutte le parti» e puntare, invece, «sulla precisione tanto nel linguaggio quanto nelle cose che si fanno».
Terza e ultima chiave per il terzo millennio consiste nella gratitudine che permette di apprezzare tutto quanto abbiamo e di goderne con la consapevolezza che potrebbe esserci tolto da un momento all’altro, potrebbe sparire in un istante «in una nuvola di fumo».
Sono parole profetiche e sempre attuali, consigli di cui conviene far tesoro.
L’uomo mostra di rado la sua gratitudine. Ne I ricordi, raccolta di massime e di aforismi sulla vita, lo storico Guicciardini (1483-1540) sottolinea la tendenza umana all’ingratitudine; di rado l’uomo riconosce il bene ricevuto, mentre sempre ricorda il male o il torto subito, anche se da parte di una persona che lo ha molto beneficato.
Nel capitolo XVII de I promessi sposi Manzoni ci presenta, invece, un personaggio che non si lamenta dei torti subiti nella vita, ma guarda i benefici ricevuti e ne è grato. Si tratta di Bortolo che dice con convinzione al cugino Renzo: «Intanto fa’ conto di me. Dio m’ha dato del bene, perché faccia del bene; e se non ne fo a’ parenti e agli amici, a chi ne farò?». Bortolo riconosce così l’origine della gratitudine, ovvero il riconoscimento di essere stati amati, di aver ricevuto molto. Da questo giudizio scaturisce il desiderio di poter donare agli altri, di poter in qualche modo offrire al prossimo parte del bene che si è ricevuto.
Ne La giornata di uno scrutatore Calvino descrive bene da cosa scaturisca la gratitudine e come si esprima. I degenti del Cottolengo nelle loro carte di identità appaiono felici, perché sanno a chi essere grati. Un uomo, orgoglioso delle proprie capacità, consapevole del proprio debito di gratitudine: «Io so fare tutti i lavori da me […], sono le suore che mi hanno insegnato. […] Siamo come una città […] non ci manca niente. Le suore non ci fanno mancare niente».
L’uomo conosce meglio il suo io solo in un rapporto umano significativo, nell’incontro con una persona che in qualche modo gli è padre e maestro, che lo ha messo sulla strada, lo ha fatto camminare, gli ha permesso di esprimere più appieno la sua umanità.