Traviata lesbo, don Giovanni gay: il catalogo lirico è questo
Lobby gay nella lirica. Copioni stravolti in chiave lesbo, protagonisti omosessuali e Violette innamorate, ma della serva.
“Se dall’opera lirica si tolgono gli omosessuali restano un tavolino e due candelieri”. La battuta circola da sempre negli ambienti operistici, specie durante le chiacchiere da camerino.
Negli ultimi decenni, tuttavia, si sta assistendo a una vera e propria mutazione, da “presenza diffusa e tradizionale” a “occupazione militare” da parte delle lobby Lgbt più aggressive. E i risultati si vedono con la degradazione, lo snaturamento e lo svilimento del melodramma, il prodotto più puro, alto e completo della creatività umana che unisce musica, canto, poesia, danza, pittura, scultura e drammaturgia.
Siamo ormai lontani anni luce dai tempi di Luchino Visconti, Franco Zeffirelli e Giuseppe Patroni Griffi, coltissimi, raffinati, profondi conoscitori della musica e delle più recondite sfumature dell’animo umano, figli di una generazione che comunque aveva attraversato due guerre mondiali e non era priva di una solida struttura valoriale.
Le loro mise en scène, sebbene a volte caratterizzate da alcune maniacalità o ridondanze, erano splendide e curate nei minimi dettagli, all’insegna del gusto assoluto per il bello oggettivo e del più totale rispetto per il genio dei grandi compositori operistici e dei loro librettisti.
Oggi è tutto cambiato: l’oscenità, la propaganda omosessualista, la blasfemia, la coprofilia, la violenza sessuale e fisica irrompono sui palcoscenici lirici nei teatri di tutta Europa, ma non solo, creando un nuovo, umiliante manierismo che si ripete con angosciosa monotonia.
Abbiamo così le trovate pazzoidi e astruse, le ormai abituali riambientazioni quasi sempre durante la Seconda guerra mondiale, con i soliti “cattivi” dell’opera in divisa nazista o fascista, gli atti sodomitici mimati in scena, i nudi integrali, il sangue, le budella, le scenografie allucinate e astratte che rinnegano la meravigliosa tradizione della scena dipinta all’italiana.
Si dibatte da tempo su questi abusi, ma quasi nessuno ha osato dire che il re è nudo, ovvero che nella maggior parte dei casi queste violenze sull’opera lirica vengono compiute quasi sempre da registi e scenografi gay. Nei restanti casi, sicuramente da registi “gay friendly” come, ad esempio, il presunto enfant prodige della regia lirica Damiano Michieletto.
Lo spagnolo Calixto Bieito è uno dei più quotati. Si ricorda il suo Ballo in maschera di Verdi ambientato sotto il franchismo, con i coristi sul water e la sodomizzazione mortale di un gay, o la sua Traviata con la relazione lesbica tra Violetta e la cameriera Annina, in cui la protagonista – con ardita lettura - simula la morte per tisi in modo da sfuggire al duo maschilistico Germont, padre e figlio. Dell’ineffabile “artista” anche i mozartiani Don Giovanni - in cui il dissoluto punito intrattiene rapporti sessuali col servitore Leporello – il Ratto dal Serraglio con orge finali e uccisioni, una Armida di Gluck con ragazzi realmente nudi intorno all’eroina e un Macbeth che subisce operazioni irripetibili “a posteriori”.
Scene di sodomia anche nella verdiana Giovanna d’Arco messa in scena alla Scala dalla coppia omo Moshe Leiser e Patrice Caurier: sono state stralciate solo grazie alla temeraria presa di posizione del direttore musicale Riccardo Chailly, poi debitamente insultato.
L’ipertrofia dell’ego trova in Pippo Del Bono, gay dichiarato, il suo campione. Nell’ultimo dittico Cavalleria Rusticana/Pagliacci all’Opera di Romaz, oltre a portare in scena dei veri disabili si è addirittura messo al centro del palcoscenico intervenendo con monologhi non richiesti, balletti e lanci di fiori durante l’esecuzione musicale disturbandola fino a distrarre i professori d’orchestra e a suscitare urla inviperite dal pubblico. Ovviamente è stato sommerso dai fischi, come spesso accade per queste grottesche trovate, ma una nota caratteristica di questi personaggi è che la riprovazione del pubblico produce in loro una sorta di furbesco, masochistico piacere, collegato con la notorietà che tali “scandali” producono grazie a critici musicali della stessa parrocchia che per puro narcisismo, o interesse materiale, ne scrivono bene. (Loro sì che hanno capito).
Un’altra nota identitaria dei registi gay è l’offesa alla religione in cui eccelle, ad esempio, Hugo De Ana di cui si ricorda il Faust all’Opera di Roma con cardinali seminudi affetti da evidente priapismo; non male anche Antonio Latella che a Macerata ha inserito la Madonna nuda che partoriva angeli. Una trovata che se la batte con la Tosca di Luc Bondy, al Metropolitan, dove Scarpia palpeggia la statua della Vergine Maria in preda a raptus mistico-erotico.
Una sottocategoria di questa esondazione di turpitudini è il bacchettonismo politicamente corretto antimaschile, dove giganteggia Leo Muscato con la sua Carmen al Maggio musicale fiorentino nella quale, con clamorosa e ridicola inversione, Carmen uccide Don José, per protesta contro i “femminicidi”.
Quello di Bizet è un titolo caro anche a Emma Dante che ha portato in scena Carmen alla Scala con Cristo fatto a pezzi, sigaraie trasformate in nere suore diaboliche. Zeffirelli ha però calato la scure. “Io credo nel diavolo e ieri sera alla Scala ho visto in scena proprio il diavolo. Quello spettacolo è il frutto di una scelta sbagliata, pericolosa soprattutto per i giovani. Immaginiamo un ragazzino che non è mai stato all'opera e va alla Scala, meraviglioso scrigno di bellezza, per vedere quella Carmen”.
Ma la violenza sui ragazzini è un’ulteriore variante di questo bouquet di perversioni che ha attirato i diversamente etero Stefano Ricci e Gianni Forte, autori di una Turandot a Macerata dove si sono visti i bambini del coro fucilati in scena, uno ad uno.
Vengono in mente le parole delle streghe nel Macbeth di Verdi: “Per noi il bello è brutto, il brutto è bello”.
Tutta questa spazzatura viene sempre gabellata come “coraggiosa denuncia dei mali odierni della società”, ma intanto veicola messaggi corrompenti e, di converso, porta pubblicità e quattrini ai loro ideatori. Un meccanismo perfettamente satanico. Su tutto aleggia l’immensa tristezza di una sterilità fisica e artistica: l’impossibilità per questi personaggi di creare una nuova opera lirica - magari attagliata alle loro istanze e idee – senza dover per forza sconciare e vilipendere quanto creato da sommi genii, secoli fa.
Questi registi sono protetti da una rete molto solida che coinvolge politici, direttori artistici, agenti lirici, cantanti, che spesso per diventare famosi devono spesso sottoporsi ai “favori” richiesti da questi ultimi. Non solo debuttanti: circolano voci su cantanti già famosissimi che si sono dovuti fingere gay per poter continuare a lavorare. Vi sono interi cast e intere compagnie totalmente gay, dove i pochi artisti etero vengono ostracizzati e mobbizzati. Proprio l’anno scorso è stato nominato nuovo direttore musicale del Metropolitan di New York l’ossimorico “cattolico gay praticante” Yannick Nézet-Séguin.
E’ un processo analogo e parallelo a quanto sta avvenendo nella Chiesa cattolica. Il fumo di Sodoma è penetrato anche fra gli stucchi dorati e i velluti rossi del teatro lirico, in quello che fino ad oggi è stato il tempio di quanto di più sacro ha espresso la cultura laica.
Non è escluso che fra qualche tempo uscirà fuori una catena di scandali, poiché la misura è colma.
La soluzione? Cominciare a ribellarsi, con la stessa furia iperreattiva con cui le varie “minoranze” oggi reagiscono anche a una innocente barzelletta. Vale la pena di ricordare l’art. 21 della Costituzione: “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. […] Ma: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni”.
Esempio per tutti sia il coraggioso sindaco leghista del minuscolo paese di Cenate (BG), Giosué Berbenni, un bravo organista laureato in legge, che ai primi di dicembre ha sfidato il Golia scaligero, il sopravvalutatissimo, gayfriendlyssimo regista David Livermore che aveva inserito nel suo Attila (al solito riambientato in una guerra mondiale) una scena raccapricciante nella quale una donna scagliava per terra la statua della Madonna.
E la Scala ha chinato il capo.
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